Susy was Here!

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    POZ PM1
    Convegno internazionale di pozioni


    SAMANTHA JENSEN O'CONNOR
    16 Y.O. | V anno | Hufflepuff Headgirl, Captain & Seeker | Neutral Good | voice | Sheet © Hoperus
    Tra l’apparente incapacità di rimanere ferma anche per un solo secondo e la vibrante gioia che trasudava dalla sua voce, era chiaro che Medea dovesse aver assunto un eccesso di Pozione dell’Euforia – o almeno, questo era ciò che pensò la Caposcuola quando la donna reagì con un sobbalzo alla sua presenza. Certo, nel corso di quell’anno aveva abbandonato gran parte della sua durezza, ma nell’ultimo periodo il suo buonumore aveva cominciato ad essere quasi disorientante (e quel pomeriggio più che mai). Non che Sam avesse intenzione di lamentarsene, anzi, ma abituarsi a tanta disposizione d’animo dopo quattro lunghi anni di bistrattamenti da parte sua e dei suoi animali domestici, un minimo di disorientamento era più che legittimo.
    Lo sconcerto per l’eccitazione della docente passò però in secondo piano quando la donna, dopo aver controllato l’orologio con impazienza, passò ad illustrarle il programma di quel pomeriggio, una gita al Cairo per partecipare al convegno internazionale sull’arte pozionistica.
    «Lo conosco!» esclamò all’improvviso, quasi interrompendo la Grael. «Ce ne ha parlato il Preside Duvall qualche anno fa, nel periodo in cui stavamo studiando il Tempio di Sekhmet!»
    Ricordava con chiarezza la curiosità che l’aveva pervasa quando vi aveva accennato e il desiderio di girare per le sale dell’esposizione, come aveva fatto a dimenticarsene? A quel punto, comunque, non aveva importanza, perché di lì a poco avrebbe finalmente saziato la sua sete di conoscenza. Così, con un pizzico di sgomento nello scoprire che non avrebbero utilizzato il calderone se non come Passaporta, si aggiustò la tracolla e si avvicinò al grosso paiolo dorato, sfiorandolo in attesa di avvertire l’ormai familiare strappo all’ombelico.

    Arrivati a destinazione, il tipico disorientamento dovuto a quel tipo di viaggio le risultò persino più acuito del solito a causa del caldo soffocante. Ma quanti gradi c’erano, cinquanta?! Colta da un capogiro, ulteriormente stordita dai riflessi del sole sul calderone scintillante (come l’avrebbero nascosto? Possibile che nessun babbano egiziano passasse di lì a quell’ora del pomeriggio?), si appoggiò alla parete più vicina e provò a prendere dei respiri profondi per ripristinare la quantità d’ossigeno che le arrivava al cervello. Peccato che l’afa era troppo asfissiante, e ad ogni boccata d’aria che immetteva nei polmoni si sentiva andare a fuoco. Con impazienza si slacciò la cravatta e la imboscò nella borsa, per poi arrotolarsi le maniche lungo le braccia per lasciare scoperta quanta più pelle possibile. Lì per lì fu quasi sul punto di Trasfigurare ogni suo capo d’abbigliamento in qualcosa di più consono, invidiando e odiando l’insegnante per il suo vestito freschissimo e le taciute informazioni, salvo poi ripiegare sull’Evocazione – previa consenso di Medea – di un semplice parasole bianco ed un ventaglietto di stoffa. In passato aveva fatto ricorso ai cappelli, ma aveva scoperto a proprie spese che la calotta che le copriva il cranio vi intrappolava anche il calore da cui avrebbe dovuto proteggerla, e non era il caso di ricercare quell’effetto collaterale.
    Una volta che si fu protetta e rinfrescata ed ebbe riportato le iridi chiare e provate dal sole sulla docente, si rese conto che del paiolo dorato non v’era più traccia, e che la stradina deserta in cui erano spuntate dava direttamente sul Nilo. In pochi istanti l’entusiasmo della Cercatrice si riaccese, quasi correndo fino all’argine per respirare la brezza generata dall’incredibile mole d’acqua trasportata dal fiume. Questa era molto più limpida di quanto non si fosse aspettata, e le mille gemme di luce che scorrevano sulla sua superficie, per quanto la riguardava, erano infinitamente più affascinanti di qualunque grattacielo potesse sorgere sulle sue sponde.
    Alla fine, con insofferenza, si costrinse a seguire la Grael nei pressi dell’altissimo edificio, apprendendo che parte di esso era celata da una sorta di incantesimo di dissimulazione o una barriera respingente, riflettendo su ciò che questo potesse significare: lo spazio occupato dal museo era il medesimo che percorrevano anche i babbani, come due piani sovrapposti? Insomma, si trattava di un grattacielo, non di un magazzino abbandonato o un cumulo di ruderi, di sicuro c’erano uffici lì dentro, gente che lavorava…
    Le sue riflessioni vennero interrotte dall’arrivo di un giovane dai pazzeschi occhi verdi, decisamente insoliti dato il suo incarnato, che rispose al saluto di Medea con un caloroso abbraccio. «Salve, Nashat» replicò Sam con voce più acuta del normale, inchinandosi con qualche secondo di ritardo, il volto più accaldato malgrado il parasole e il ventaglio stessero adempiendo al proprio compito. Era… arrossita? Da quanto tempo non le capitava di imbarazzarsi per una cosa del genere? L’ultima volta, ed era piuttosto certa di non sbagliare, era ancora al suo primo anno. Confusa dalla propria reazione, si affrettò a seguire l’insegnante e la loro guida all’interno delle porte a vetri: poco dopo si ritrovò in un’ampia sala in penombra, con le comuni caratteristiche di ogni museo bene in vista fra il pavimento di marmo, il banco informazioni nel mezzo della stanza, ed il silenzio degli invisibili studiosi.
    Prima ancora di dedicarsi all’osservazione, però, lasciò che il sollievo per essere sfuggita alla calura dell’esterno la sciogliesse e, con un rapido gesto, Esiliò gli strumenti a cui aveva fatto ricorso. Dopodiché prese a focalizzarsi su quel nuovo ambiente, cercando di capire dove fossero contenute le pozioni e come si accedesse alle gallerie o ai piani superiori – perché dovevano essercene, o tutto lo spazio del palazzo sarebbe andato sprecato.
    La voce di Nashat e i loro passi echeggiavano lievemente nel salone taciturno e, mentre procedevano, la Tassorosso si accostò al punto centrale per prelevare una mappa e dei dépliant che si mise a consultare con fermento, almeno finché non vennero raggiunti da un’altra persona – una ragazza, stavolta, di nome Nadia. Portava un velo ed era tanto giovane quanto trafelata, forse era stata trattenuta in qualche padiglione. I convenevoli fra lei e Medea furono meno affettuosi rispetto a quelli che la Professoressa si era scambiata con Nashat – magari erano meno in confidenza – e, finalmente, vennero condotte alla prima esposizione, contenuta della sala Egiziana.
    Dopo la penombra dell’atrio, ritrovarsi sul sentiero del Mago di Oz circondata da sabbia le fece quasi dolere le cornee per l’improvviso cambio di luminosità, ma quando si fu acclimatata poté scorgere ogni sorta di reperto, appositamente protetto nella propria teca. C’erano lunghi ed antichissimi papiri, vecchie incisioni stilizzate in cui distinse forme umane e vegetali e, in un altro settore della sala, vasi e calderoni. Ascoltava le parole di Nadia con grande concentrazione, le pupille che scorrevano affascinate sui geroglifici dei rotoli cercando di intuirne il significato senza servirsi della traduzione a lato. Alcune nozioni già le conosceva grazie ai corsi di Magia Internazionale e Pozioni, ma altre le erano del tutto nuove, e trattenersi dal riempire la guida di domande nel bel mezzo della spiegazione fu particolarmente complesso. La descrizione dei riti religiosi legati alla preparazione degli infusi medici fu particolarmente suggestiva, soprattutto grazie alla dimostrazione pratica che un impiegato del museo stava facendo in una piccola piramide in fondo al percorso. Tanto i suoi gesti quanto le sue parole erano concentrati ed assorti, ma Sam non capì nulla se non i nomi di qualche divinità dell’Antico Egitto. La preghiera suonava fervente e misteriosa, e preferì attendere la fine dello spettacolo per importunare Nadia. Nel tornare a voltarsi verso la giovane, però, il suo sguardo incrociò la figura di Nashat, e stavolta le sue gote non furono l’unica parte del suo corpo a reagire: quando si accorse a chi erano rivolte le sue occhiate, infatti, al bollore del viso si aggiunse una spiacevole stretta allo stomaco, che si sforzò di ignorare mentre rimetteva in ordine gli appunti mentali che si era presa.
    «Sì, avrei qualche domanda in effetti… » cominciò con un pizzico di inconsueta titubanza. «Ha detto che la chirurgia era particolarmente evoluta, ma non ha accennato direttamente alle pozioni, perciò mi chiedevo se venissero effettivamente usate nel corso delle operazioni. Ad esempio miscele come le pozioni cicatrizzanti o anestetizzanti! A questo proposito, sa anche se venivano usate durante i processi di imbalsamazione, magari all’insaputa dei babbani che se ne occupavano?»
    Lasciò a Nadia il tempo per colmare le sue curiosità, poi tornò alla carica. «Visto che il ferro assorbe molto il calore, le pozioni preparate nei calderoni di ferro venivano bene? Voglio dire, ovviamente erano efficaci dato che sono stati proprio gli egizi a brevettare l’Ossofast ma, visto che adesso non vengono più usati, hanno dovuto ricalcolare il tempo di ebollizione delle ricette in base alle proprietà dei calderoni in peltro o argento?». E poi c’era un’ultima questione. «Che tipo di minerali veniva usato? E perché ora non se ne usano più?» O almeno, in quel momento non le veniva in mente neppure un infuso che ne avesse uno come ingrediente.

    Spostandosi nella sala successiva vennero accolte da una grossa statua di Shiva e dal profumo di incenso, elementi che fecero subito intuire a Sam la provenienza degli artefatti lì contenuti. Anche il pavimento era mutato, rimodellandosi da deserto a nuda terra; la Tassorosso inspirò a fondo il profumo dei fiori sparsi, dei rampicanti e dell’humus, desiderando di potersi levare le scarpe per sentire la terra sotto i piedi mentre conversava con la docente e si metteva alla prova, cercando di indovinare il materiale di un calderone o il significato di una certa iconografia. Assurdo a dirsi, si sentiva totalmente a proprio agio, come se stesse visitando il museo in compagnia di un’amica di vecchia data; se si fosse azzardata a raccontare a qualcuno di quell’improbabile cameratismo con una delle professoresse con la peggiore reputazione della scuola, di certo avrebbero pensato che si fosse inventata tutto.
    Quando ebbero esplorato per conto proprio parte della sala Indiana, Nashat prese il posto di Nadia come guida ed iniziò ad illustrare la storia dei cimeli esposti e della pozionistica nel subcontinente indiano. Parlava con passione, e Sam non capiva se fosse più attratta dai suoi racconti o da lui stesso. Menzionò anche aspetti che non aveva mai associato alla magia, tra cui la fisioterapia, e recepì assorda come in India il ruolo cerimoniale e religioso fosse più accentuato che in Egitto. Fu proprio quello il punto che pose al centro dei quesiti che rivolse a Nashat quando venne interpellata.
    «Sì! In effetti mi chiedevo se fosse ancora possibile creare pozioni secondo le antiche modalità, e se sia necessario essere credenti per poter purificare la zona e invocare gli dèi. La presenza delle divinità o degli incensi è davvero essenziale per la preparazione - insomma, aumenta davvero la sua potenza - o è solo una credenza?». La seconda parte delle sue riflessioni era invece di carattere generale, ma più di tutto sperava che Nashat non la trovasse pedante o fastidiosa. «Come mai l’arte medi-magica in India ha avuto vita più breve rispetto a quella egiziana? E… ehm, la vendita dei filtri d’amore è rigidamente regolamentata anche lì?». Avvampò. «Non che ne voglia comprare uno, è solo curiosità: possono essere molto pericolosi e in Regno Unito vengono concessi solo con una speciale autorizzazione...»

    [...]

    CITAZIONE
    « Le parti non possono essere prelevati da animali morti. Spesso viene utilizzato l'incantesimo di transito corporeo per prelevare le parti che possono essere...come dire...non vitali per l'animale. Ma per quelli che lo sono...Ecco, la creatura viene uccisa e la parte interessata prelevata e successivamente conservata »

    Nadia e Nashat non le parvero infastiditi dagli infiniti quesiti che aveva posto, anzi; non solo le spiegarono ogni cosa con gentilezza, ma le risposte che ricevette le fornirono innumerevoli spunti di riflessione. Rimase un po’ turbata, affascinata e delusa dal fatto che quattromila anni prima i babbani fossero molto più inclini ad accettare il soprannaturale di adesso, senza porsi troppe domande. Magari era anche merito della religione e del culto di una figura come quella del faraone che univa il popolo indistintamente, o forse degli stessi sacerdoti, ritenuti in grado di compiere incantesimi in quanto emissari delle divinità. Certo, le loro capacità non erano legate realmente ad un potere ultraterreno, ma non è che al giorno d’oggi i maghi avessero compreso appieno da dove provenisse la magia e perché alcune persone vi fossero più predisposte di altre. Che fosse solo evoluzione? O al contrario la presenza di un qualche strano elemento nel DNA che un babbano, analizzando un campione di sangue, avrebbe potuto rilevare e riprodurre? Per un istante ponderò che quel marker genetico potesse avere origini aliene, ma il pensiero era troppo ampio e mozzafiato per pensarci in quel momento. La sola idea le faceva mancare la terra sotto i piedi.
    E poi c’erano gli utilizzatori dell’Aura, a metà fra le due categorie. Babbani capaci di tanta intima onestà e consapevolezza da essere in grado di imbrigliare l’Alone e sfruttarlo quasi meglio dei maghi stessi, pur non possedendo il benché minimo briciolo di potere nelle loro vene. Ancora ricordava lo sconcerto che aveva provato quando Levon gliel’aveva raccontato.
    La sua domanda sullo sviluppo dei processi pozionistici fu invece meno sagace, tanto che quando Nadia le illustrò il nesso fra il perfezionamento dei calderoni e della mescolanza degli ingredienti si sentì un po’ stupida. In effetti, era piuttosto ovvio. D’altro canto anche gli incantesimi venivano studiati a lungo e sottoposti a numerosi esperimenti prima di venire brevettati e insegnati. E lo stesso, in un certo senso, valeva per i percorsi alchemici: una volta raggiunto un certo livello di conoscenza interiore, ogni volta che si cresceva e maturava, era necessario rielaborare le nuove scoperte per ritrovare un equilibrio, o si sarebbe rimasti incastrati allo stesso punto di sempre.

    Agli interventi di Nashat, nella sala indiana, stette particolarmente attenta, lievemente stordita dal profumo d’incenso. Alla menzione della scarsa praticità di performare riti propiziatori prima di mettersi all’opera con un paiolo, non poté fare a meno di immaginare Medea sollevare le braccia al cielo nell’aula dei sotterranei per invocare Ra, cosa che la indusse a ridacchiare sommessamente mentre la squadrava con la coda dell’occhio. Però di sicuro dovevano ancora esserci villaggi sperduti in cui quella tradizione era rimasta intatta, magari vecchie comunità druidiche o cose del genere.
    Al suo ultimo intervento, Sam si ritrovò ad arrossire lievemente, dandosi della stupida per essere caduta in quell’errore idiota – davanti a Nashat, per di più. Malgrado avesse seguito con interesse il corso del Preside Duvall, ed avrebbe dunque dovuto aver già appreso da tempo che la magia veniva percepita ed usata in modi differenti, si sentiva ancora molto legata alla propria realtà, tanto che, in alcuni casi, faticava a prendere in considerazione il fatto che essa avesse subìto le più svariate evoluzioni a seconda della zona geografica. Anche per questo aveva deciso di recuperare il corso della Stevens, in modo da cercare di capire ancora meglio quali fossero stati i processi che avevano portato all’attuale realtà delle cose. Non che avesse davvero creduto che soli tre anni le avrebbero permesso di aprirle la mente, ma in quel frangente si rese effettivamente conto di quanto mantenere il cervello quanto più recettivo possibile richiedesse un esercizio costante. E poi avrebbe potuto arrivarci anche da sola, no? In Europa e in America si faceva uso dei catalizzatori, mentre in Africa no; e sì, in Oriente le leggi in vigore a proposito dei tappeti volanti erano diametralmente opposte a quelle del Regno Unito, però dubitava che i babbani locali fossero avvezzi a vedere gente svolazzare a mezz’aria su un tappeto… forse venivano incantati appositamente per fornire invisibilità sia al mezzo di trasporto che al mago che lo cavalcava.
    «Grazie per la spiegazione, ammetto di non averci pensato» replicò al giovane, prima di avvampare come una fiamma quando Nashat le si piazzò accanto, chiudendola fra sé e Medea mentre la scortavano nella sala conferenze del museo. Era così distratta dalla presenza del ragazzo che a malapena si chiese che fine avesse fatto Nadia, figurarsi rendersi conto del percorso attraverso cui l’avevano condotta per raggiungere la tavola rotonda.
    Per l’intero tragitto cercò di imporsi di rimanere calma e focalizzarsi su ciò che avrebbe sentito di lì a poco, sulla prospettiva di incontrare altri coetanei di ogni età e nazionalità, ma solo quando (dopo quella che le parve una brevissima eternità) giunsero a destinazione, riuscì nei suoi intenti. Lo spettacolo che le si parò davanti era incredibile: aveva l’impressione di trovarsi in un immenso teatro, dove file e file di poltrone erano occupate da intere scolaresche che sembravano essere apparse all’improvviso. Ma da dove erano spuntate? Erano sempre stati nel museo anche loro? E i relatori! La tavola sembrava non finire mai, tanti erano i Paesi che partecipavano al congresso! Con curiosità, cercò di allungare il collo per vedere le bandiere ed i nomi sui cartellini alla ricerca del rappresentante della Gran Bretagna e, quando lo individuò, rimase un po’ delusa. Non l’aveva mai visto prima, ma sicuramente avrebbe menzionato ogni pozione brevettata nell’ultimo anno, compresa quella a cui aveva lavorato sua madre.
    Ovviamente era impossibile ospitare tutte e duecent’otto le nazioni, perciò si ritrovò a chiedere sottovoce, a nessuno dei suoi accompagnatori in particolare: «Partecipano tutti i Paesi del mondo alla conferenza, o solo quelli che hanno fatto le maggiori scoperte?». C’era persino la possibilità che alcuni avessero scelto un unico esponente per presentarne più di una.
    Alla fine il moderatore si alzò e si puntò la bacchetta alla gola. A quella distanza Sam non udì il Sonorus (forse l’aveva pure castato mentalmente), ma subito dopo la voce del mago risuonò chiaramente nell’auditorium, inducendo poco a poco la folla a tacere. In quello stesso istante, sulle gambe di ciascuno apparvero blocco e penna per prendere appunti, e la Caposcuola, senza attendere due volte, segnò luogo e data in cima al primo foglio, pronta a scriversi qualunque cosa avesse stuzzicato il suo interesse.
    La Tassorosso apprese così quanto bizzarri fossero i pozionisti, quelli che davvero trascorrevano gran parte della propria vita chiusi tra i fumi dei calderoni per fare ricerca. Comprese anche che quella professione non avrebbe mai potuto fare per lei, non se avesse dovuto osare e rischiare, anteponendo la propria vita a quella di una creatura pur di prelevarne delle parti da utilizzare negli infusi. Certo, nella classe della Grael maneggiava milze e bili, occhi e sangue, ma si trattava di ingredienti già selezionati, e non aveva mai osato chiedersi se provenissero da carcasse già morte o appositamente abbattute. Com’era possibile che, bevendo un qualsiasi infuso, non si soffermasse mai a pensare che, a conti fatti, stava sorseggiando ossa tritate insieme a qualche erba?
    “Tosca, ti prego, fa’ che non vomiti la prossima volta che berrò un qualsiasi intruglio” si ritrovò a supplicare disperata. Per lei era così normale maneggiare quei materiali e fare uso delle pozioni che quando realizzò cosa questo comportasse quasi rigettò sul serio, il viso cereo che risaltava sotto le ciocche corvine.
    Lei era vegetariana. Vegetariana, per l’amor del cielo, in cosa era diverso assumere infusi dagli ingredienti animali rispetto al mangiare una bistecca? Niente, si rese conto con un rivolo di orrore. Assolutamente in niente.
    “Respira. Come ti ha insegnato Wallace. Respira”
    Come aveva potuto essere così cieca e superficiale? No, basta, aveva deciso. Da quel momento in avanti si sarebbe documentata sulla provenienza degli ingredienti di ogni pozione e, se fossero stati prelevati da un animale appositamente ucciso, si sarebbe rifiutata di assumerla.
    Al termine del dibattito, Medea si alzò e scese lungo la scalinata per andare a parlare con alcuni professori, lasciandola sola con il giovane.
    «Nashat… » lo chiamò, una punta di serietà apparentemente insensata nella voce. «Per caso sai qualcosa sui ricercatori di ingredienti? So che ce ne sono di due categorie, erbologi esploratori per prendere quelli di origine vegetale e magizoologi specializzati per quelli di origine animale, giusto? Ecco, mi chiedevo se questi ultimi uccidano le creature o prelevino le parti che servono da animali già morti… ». Attese la risposta con timore: di sicuro giungere sul posto subito dopo un decesso poteva non garantire la freschezza dell’ingrediente, senza contare che le creature ammazzate da altre in combattimento potevano avere gli organi danneggiati e il sangue contaminato dal veleno di un altro animale… Non si illudeva in proposito, ma le sarebbe ugualmente piaciuto avere un quadro più completo della situazione per poter prendere una decisione definitiva a proposito della faccenda.

    Sam uscì dalla sala conferenze con una nuova risoluzione nell’animo e, cercando di riscuotersi dai propri turbamenti per non guastarsi la gita, si concentrò sui vari corridoi, cercando di scorgere gli altri visitatori o di distinguere un accento dall’altro. Ad un certo punto si imbatterono in un ragazzo dalla chioma ricciuta che doveva avere più o meno la stessa età di Sam, forse uno o due anni in più, curiosamente solo. La Tassorosso si chiese se non avesse marinato la scuola per visitare il museo, ma dal dialogo che seguì con Medea comprese che la sua ipotesi non poteva essere più errata: si trattava di un alunno dell’accademia italiana di magia, selezionato casualmente per la prova che, a quanto pareva, avrebbe dovuto condurre con lui.
    Si presentò con un sorriso come «Andrea, piacere», l’inglese sferzato da un accento italiano che non riuscì a identificare e, dopo un primo attimo di sconcerto in cui si chiese perché avesse un nome da ragazza, replicò con un cordiale «Io sono Samantha – Sam. Piacere mio», stringendogli la mano.
    Istintivamente provò un senso di soggezione al pensiero di quante pozioni dovesse conoscere in più rispetto a lei, ma soffocò quel lieve disagio e seguì Medea e Nashat al piano di sopra. Lì varcando una porta, ed in quella si ritrovò a dover strizzare gli occhi per la luce improvvisa, in netto contrasto con la penombra del resto del museo. Si trovavano ai margini di una lussureggiante foresta di conifere assurdamente verticali. Più avanti percepì l’inconfondibile profumo dell’acqua di lago e, ancora più indietro, alle spalle del bosco, scorse delle punte aguzze e massicce, più simili a delle gole che non ad una vera catena montuosa.
    «Le Dolomiti esclamò Andrea sorpreso, riconoscendo il panorama.
    «Sono nel nord, vero?» domandò Sam, superando l’imbarazzo. Durante il suo terzo anno, il docente di Cura delle Creature Magiche li aveva portati in nord Italia, nei pressi di un lago lombardo, per studiare il Kelpie che viveva in quelle acque, e lo scenario non le sembrava così diverso.
    «Sì, nel nord-est per la precisione» confermò lui annuendo. «Ho letto “sala italiana” fuori, ma credevo che dentro ci sarebbe stata un’esposizione come quella della sala egiziana – l’hai vista? – non certo questo! L’Italia non era mica conosciuta per il sole e il mare?» continuò, indicando il rudimentale calderone che giaceva in uno spiazzo insieme a qualche tronco e a varie pietre.
    «Sì, ci siamo passati!» asserì a proposito dell’ala egiziana. «Ma ho visto la Sala Italiana, anche se di sfuggita. Si sentiva l’odore delle onde e tutta la stanza era come un susseguirsi di paesaggi, con le Alpi, le spiagge, le pianure e le colline con i vigneti… e poi c’erano delle ampolle con le acque termali, e un sacco di mappe sulle necropoli e le influenze del continente. Facci un salto, è molto interessante». Quasi ogni popolo era stato in Italia e vi aveva lasciato il segno, era pazzesco!
    «Grazie, ne prendo nota» annuì lui, avanzando nel bosco. «Forse questa stanza è una sorta di laboratorio» congetturò, ed in quella Nashat intervenne a confermare la sua supposizione. Il loro compito sarebbe stato cercare di creare una pozione senza utilizzare la magia, procacciandosi autonomamente gli ingredienti. Andrea fischiò alle indicazioni, in un sardonico segno che metteva in chiaro il fatto che avesse compreso subito quanto difficile sarebbe stato.
    Dopodiché, ricevuti gli auguri di buon lavoro, Nashat e Medea li lasciarono soli, forse diretti verso altre scolaresche.
    «Allora, che pozione vogliamo fare?» le chiese Andrea in tono amichevole, mentre si avvicinava al ciocco di legno. Sam lo seguì, pensierosa.
    «Beh, dato che non abbiamo a disposizione praticamente nulla, credo che ci convenga sceglierne una abbastanza semplice»
    Lui ammiccò - «Giusto» - per poi lasciarsi andare ad un teatrale sospiro. «E io che sto al settimo anno a fare?»
    La Caposcuola incrociò le braccia, sollevando un sopracciglio. «Perché, avevi intenzione di creare una pozione proibitiva? Non si studiano solo quelle all’ultimo anno?»
    «Beh, sarebbe stato divertente, no?»
    «A-ha»
    Sam arricciò le labbra. «E dove l'avresti trovato un grifone, o un Erumpent?»
    «Dettagli»
    minimizzò lui, battendo poi le mani. «Allora che pozione semplice sia! Mmmh… che ne dici della Pozione Dilatante?»
    «Ehm… »
    la Tassorosso tentennò «lo apri tu il pipistrello per prendergli la milza?»
    «Cavolo, no!»
    replicò lui, scherzosamente schifato. «Io spremerò i bulbi dei pesci-palla»
    «Non erano pesci d’acqua salata?»
    «Non tutti»
    «Scusa, non mi pare di avere il fiume Congo, qui»
    «Ok, ok, niente Pozione Dilatante»

    Sam girò attorno al calderone appena sbozzato nella roccia. Era spesso, il fuoco avrebbe dovuto essere piuttosto caldo per penetrare la crosta, ma non tanto da fonderla prima che pozione fosse conclusa. Accidenti, era più complesso di quanto avesse preventivato! «Che ne dici del Filtro Doxycida? Ci sono sicuramente delle tarantole da queste parti»
    «Ah, sì. Ammesso e non concesso che riuscissimo a trovarne una in questa foresta, io non mi assumo la responsabilità di prenderle il veleno manco se sapessi come fare»
    «Dettagli»
    gli fece il verso lei. «Ok, ok, concentriamoci. Cosa potremmo fare senza dover cacciare o scuoiare o rischiare la vita?»
    «Il Distillato Sviante?»

    Ah, già. «Non sarebbe una cattiva idea-»
    «Se non fosse che sono solo tre erbette messe in croce, non ho intenzione di presentare alla mia Prof di pozioni una cosa del genere, fra meno di un mese ho i MAGO!»

    Sam sbuffò, le iridi che danzavano sul terreno per cercare di riconoscere le varie piante. «Beh, a meno che non ci venga un’altra idea, questo è tutto ciò a cui sono riuscita a pensare»
    «No, aspetta. Il Distillato Soporifero!»
    «Ma c’è il muco di Vermicoli»
    «E quindi?»
    «Sono animali»
    «… »
    annuì Andrea, confuso. «E quindi
    «Io sono vegetariana»
    «Dài, non puoi dire sul serio!»
    «Sì»
    «E come fai con le pozioni?»
    «Ci sto ancora lavorando»
    ammise Sam con fare sostenuto.
    «Beh, buona fortuna!» disse lui. «Ma continuo a non capire perché sia un problema, dobbiamo prendere il muco, mica spremerli»
    «Vero. E per l’ingrediente base?»
    «Mai capito cosa sia»
    «Ma se ti diplomi tra un mese!»
    «Fammi causa! Tu lo sai?»

    Sam arrossì.
    «Ecco, ecco! È una sorta di segreto tra farmacisti, come la fabbricazione delle bacchette, te lo dico io!»
    La Cercatrice, suo malgrado, scoppiò a ridere.
    «E va bene, senti: e se prendessimo qualcos’altro, qualcosa che rilassi e induca alla sonnolenza?»
    «Intendi tipo la camomilla?»
    «Esatto!»
    «Ok, aggiudicato. Ma se riusciamo davvero a trovare della camomilla nei boschi del Trentino, giuro che scriverò una mail di protesta al direttore del museo»

    Sam rise di nuovo.
    «Su, mettiamoci al lavoro. Non ci hanno dato limiti di tempo, ma dubito che potremo stare qui troppo a lung-oh, no!»
    «Cosa, cosa? Ho un insetto addosso?»
    «Ma no, è che il Distillato Soporifero deve fermentare per più di un’ora!»
    «Massì, chiameremo i prof dopo aver completato i primi passaggi, sarà già un miracolo se riusciremo ad arrivare a quel punto!»
    «Te l’hanno mai detto che sei incredibilmente approssimativo?»
    «E a te che ti preoccupi troppo?»
    «Di continuo»

    Andrea fece per dire qualcosa, ma poi si interruppe. «Allora, capo, come ci dividiamo i compiti?»
    «Chi l’ha detto che sono io il capo?»
    «Sei tu quella organizzata, io eseguo»
    «Ricordami perché hai deciso di prendere i MAGO in pozioni»
    «Perché me ne servono almeno quattro per accedere all’università, e di studiare Erbologia non se ne parlava»
    «Cos’ha Erbologia che non va?»

    Andrea rise fragorosamente, ed uno stormo di uccelli si librò in volo infastidito, allontanandosi dal chiasso.
    «Ovviamente studi pure Erbologia»
    «Certo»
    ribatté Sam con fierezza. «Qual era l’altra opzione?»
    «Difesa Contro le Arti Oscure, ma i GUFO mi sono bastati»

    Sam annuì. «Ti capisco, è una materia abbastanza traumatica. Ma quindi? Qual è la tua vera vocazione?»
    «Oggetti Magici. Sono un vero asso con le mani»
    «Aaah, questo sì che ci può essere utile! Pensi di riuscire ad accendere il fuoco e a limare qualche roccia? Abbiamo bisogno di pestello e mortaio»
    «Facile come bere un bicchier d’acqua»
    «Intendi easy as pie
    «Quello. Anche se converrai con me che preparare una torta è ben più complicato che bersi un bicchiere d’acqua»

    Sam lo guardò storto.
    «Ok, mi metto al lavoro» rise di nuovo lui. «E tu? Come troverai gli ingredienti?»
    «Sono un’Animagus»
    «Seria? Che figata! Anche io ci avevo pensato, ma avevo troppo da fare e ho preferito rimandare. In cosa ti trasformi?»
    «Un fringuello»
    «Che carino!»
    «Sì, lo è, in effetti. Non sono ancora riuscita a trasformarmi del tutto, ma ho pochi dubbi a riguardo. Credevo che avrei assunto la forma di una cinciallegra, invece no»
    «Però… »
    «?»
    «Beh, l’Animagia è comunque magia, no? E noi non possiamo usare la magia per questa prova. E poi hai detto che stai ancora imparando, non sarebbe rischioso?»
    «Ah, cavolo, hai ragione!»
    realizzò lei con un velo di sconforto. Se Wallace avesse scoperto che aveva provato a trasformarsi senza di lui, l’avrebbe sbattuta fuori dal suo ufficio senza pensarci due volte. «Pazienza, vorrà dire che camminerò». Un sospiro. «Vado, prima di perdere altro tempo»
    «A dopo!»
    salutò lui, dandole le spalle e cominciando a raccattare legnetti e altro materiale utile per produrre gli strumenti.
    Dal canto suo, Sam si avviò nel bosco, abbassandosi le maniche della camicia per proteggersi dalla brezza, le pupille che sondavano attentamente ogni erba, foglia e fiore per identificarle. La valeriana fu la più semplice da trovare, ad appena cinque minuti di cammino lungo il bosco annidato ad ovest del lago. Ne prese in abbondanza, assicurandosi di recidere il meno possibile le radici e riponendola nella borsa a tracolla, poi proseguì.
    Per quanto complicato, quella prova le serviva anche come esercizio per riconoscere i tipi di terreno, selezionando quelli che avrebbero potuto accogliere determinate piante con maggiore probabilità.
    Impiegò più di mezz’ora a trovare tutto, specialmente la camomilla, disposta in ciuffi su una collinetta esposta al sole oltre un gruppo di alberi particolarmente intricato e, per il ritorno, decise di passare dalla spiaggia sassosa e percorrere il lungolago. Purtroppo non aveva trovato neanche un Vermicolo, ma se avesse tardato ancora Andrea avrebbe potuto preoccuparsi, e voleva evitare che, per cercarla, si allontanasse nella foresta.
    «Eccomi!» si annunciò spuntando dalla spiaggetta. Era stato quasi strano, per una abituata al mare impervio della Cornovaglia come lei, osservare una superficie così placida, ma trovò che c’era qualcosa di estremamente quieto nei laghi, qualcosa che la calmò – ma potevano benissimo essere gli effluvi della lavanda.
    «Ehi, alla buon’ora! Stavo quasi per darti per dispersa!»
    «Nah, mi so orientare in un bosco»
    «Anche in verticale?»
    «In che senso?»
    lo guardò lei, confusa. Lui indicò le sue ginocchia, visibili oltre l’orlo della gonna. «Ah, no, queste me le sono fatte da piccola, stavo più all’aperto che in casa»
    «E non hai mai imparato ad accendere un fuoco?»
    «Per i maghi non è così ovvio»
    spiegò lei depositando gli ingredienti sul tronco, osservando poi gli strumenti che Andrea aveva realizzato. «Sappiamo di poter contare sempre sulla magia. Piuttosto, perché tu sai come si fa?»
    «Beh»
    fece lui, accostandosi a Sam con una grossa foglia piatta fra le mani. «Quello è perché da piccolo ero negli scout. La mia prima manifestazione è stata un po’ tardiva»
    «Capisco»
    disse lei, senza sapere bene come reagire a quella confessione. «Cos’hai lì?»
    «Ah, sì! Mentre cercavo la legna per accendere il fuoco ho trovato un ramo viscidissimo. Insomma, per pura fortuna ho beccato proprio quello in cima a una tana di vermicoli»
    «Le stelle sono allineate, pare»
    «Oh, sì»
    rise lui, sistemandosi una ciocca ricciuta dietro l’orecchio. «E quella è… »
    «Già. Dovrai mandare quel gufo al direttore»
    «Dove andremo a finire»
    sospirò lui, per poi battere le mani. «Su, mettiamoci al lavoro, ché è meglio. Tu ti occupi della valeriana e della camomilla, e io della lavanda?»
    «Sì, ti prego. Devo averne inalata troppa, perché mi sento un po’ stordita»

    Andrea rise di nuovo. «Ti prego, non crollarmi ora, sennò finirò per far esplodere questa stanza»
    «Cercherò di non addormentarmi»
    promise Sam, per poi impugnare per prima il pestello e gesticolare con l’attrezzo in mano. «E tu come fai?»
    «Me ne sono fatto uno per me»
    spiegò, recuperandolo dai sassi che sorreggevano il tronco adibito a tavolo da lavoro.
    «Non hai perso tempo, vedo»
    «Non ne avevo intenzione, ma tu non tornavi più, così… »
    «Beh, lieta che la mia assenza ti abbia reso più produttivo»

    Tra una chiacchiera e l’altra, i due si misero a sminuzzare e tagliuzzare ogni ingrediente fin quando non riuscirono ad ottenerne frammenti quanto più piccoli e pastosi, le mani e le unghie tinte di verde.
    «Dì un po’, cos’avevi di così impegnativo che hai deciso di non diventare Animagus negli anni scorsi?» domandò Sam, separando i rametti più corti di valeriana da quelli più lunghi un modo tale da poter attingere a fusti completamente lisci e ad altri ancora dotati di fiori.
    «Sono il capo della mia squadra di Gobbiglie» rispose lui, facendo lo stesso con la lavanda.
    «Ma dài!»
    «Sì. E ti dirò: andiamo anche alla grande! Da quando ci sono io in squadra non abbiamo perso un incontro – ottima manualità, ricordi?»
    «Avete fatto anche dei tornei internazionali?»
    «Altroché! Contro i Paesi Bassi per poco non perdevamo – la Fossa del Serpente è infame, gli olandesi quasi ci hanno fatto fallo – ma alla fine sono rimasti spruzzati e ci siamo portati a casa la coppa»
    «Io ci ho provato una volta – hai fatto con la lavanda? – ma ho perso clamorosamente»
    rise. «Credo fosse la versione classica»
    «Eeh, le Gobbiglie non sono mica per tutti – tieni -, non capirò mai perché la gente non apprezzi a dovere questo gioco»
    piagnucolò ironico. «Giochi a qualcosa pure tu?»
    Sam lasciò cadere quattro rametti di valeriana nel mortaio insieme a due misurini (due sassolini cavi delle dimensioni più o meno simili a quelle del misurino che usava a Hogwarts) di camomilla, e cominciò ad impastarli.
    «Quidditch. Sono anch’io Capitano, Cercatrice»
    «Wow, davvero?»
    «Sì! Andiamo forte anche noi, ma non penso che continuerò dopo i MAGO. Puoi aggiungere due gocce di muco e due misurini di camomilla nel calderone?»
    «Sùbito!»
    «Poi tieni le fiamme medie, se riesci»

    Andrea eseguì, prelevando un po’ di muco sull’estremità di un legnetto per poi scuoterlo all’interno del paiolo rudimentale. Quindi si chinò, soffocando un po’ il fuocherello con il terriccio umido.
    «Perché non continuare? L’ambiente agonistico non ti ispira?»
    «È solo un passatempo in realtà, sono entrata in squadra perché me l’ha chiesto la mia migliore amica – lei è una Cacciatrice -, preferirei concentrarmi su cose più pratiche»
    spiegò Sam, contando mentalmente fino a trenta prima di prendere tre misurini d’impasto e depositarli nel calderone. La valeriana avrebbe dovuto aspettare. «Ok, adesso non ci resta che aspettare»
    «Ma come, non c’era qualche altro passaggio?»
    «No, deve fermentare per settanta minuti»
    «E quindi ora che si fa?»
    «Chiamiamo i professori?»
    «Di già?»

    Sam quasi arrossì, stupita. «Beh, è già passata un’ora, si chiederanno se non siamo affogati»
    «Io non credo»
    ribatté lui. «O sarebbero già passati a controllare»
    «Ok, ma allora?»
    «Boh, parliamo un po’. Tipo, come sapevi che questo è il nord Italia?»
    domandò, sedendosi con la schiena contro un albero.
    «Ho cavalcato un Kelpie da queste parti, qualche anno fa». La Tassorosso lo imitò.
    «Nooooo»
    «Sìììì»
    «E com’è andata?»
    «Alla grande! Per poco non cadevo in acqua, ma è stato fantastico! Tu l’hai mai fatto?»
    «Nah, solo ippogrifi. Una volta ho provato con un Thestral, ma è stato inquietante non vederlo per tutto il tempo, figurati volarci»
    «Posso immaginare»
    concordò Sam. «E tu? Come sapevi che sono le Dolomiti? Vivi in questa regione?»
    «No, ma le Dolomiti sono celeberrime! Io sono delle Marche – di Pesaro, per la precisione»
    «È sul mare?»
    «M-hm, sull’Adriatico, verso la Croazia»
    . Sam cercò di visualizzare la mappa dell’Europa per orientarsi nella descrizione. Più o meno credeva di aver capito. «Tu però non sei di Londra, o almeno, non hai l’accento di Londra»
    «Infatti, ma è un po’ complicato. Sono nata in Irlanda e ho vissuto lì da piccola, ma poi ci siamo trasferiti in Cornovaglia. E mia madre è scozzese, quindi non so neppure io con che accento parli»
    «Un bel miscuglio, non c’è che dire. Sai anche il gaelico?»
    «Sì, ma non lo parlo quasi mai, perciò non mi chiedere di dirti qualcosa perché sarebbe troppo imbarazzante»
    «Uffa»
    «Sei mai stato in Inghilterra?»
    chiese Sam dopo una breve pausa, allungando le gambe sul terreno.
    «In Scozia» corresse lui. «Mi ero imbucato alla gita di Magia Internazionale al quarto anno, il vostro Preside è un tipo assurdo»
    La Caposcuola rise. «Sì, è bizzarro anche per essere un mago. Ma perché ti sei imbucato? Non seguivi il corso?»
    «Purtroppo no, era un casino trovare dei momenti per allenarci a Gobbiglie e con i tornei non potevo seguire troppe lezioni»
    «Non avrei mai pensato che le Gobbiglie fossero più impegnative del Quidditch!»
    «Ecco, ricrediti e diffondi il verbo!»
    «Sarà fatto»
    promise lei solennemente.
    Parlare con Andrea le veniva semplicissimo, e presto perse la cognizione del tempo. Fu solo quando cominciò a sentire puzza di bruciato che scattò in piedi, spazzolandosi la gonna mentre si affrettava a controllare il calderone.
    «Cavolo, prendi dell’acqua, prendi dell’acqua!»
    «Con cosa dovrei prenderla, secondo te?!»
    «Che ne so, sei tu lo scout, mica io!»

    Non erano passati i settanta minuti, ma a quel punto forse avrebbero dovuto accelerare i tempi. Qualche decina di secondi dopo, Andrea le arrivò accanto e riversò una grossa foglia piegata a cono nel calderone, ed il poco liquido che c’era si tinse di viola acceso.
    «Oh-oh»
    «Come oh-oh, il colore finale è molto simile, no?»
    «Sì, ma dovrebbe assumerlo dopo aver aggiunto la valeriana»
    «Oh-oh»
    «Già. Provo ad aggiungere anche il resto, vediamo come va, tu prendi altra acqua, non si sa mai»
    «Vado!»

    In un attimo Sam si rimise all’opera, aggiungendo altro ingrediente base nel calderone e chinandosi per fare vento al fuoco in modo che la fiamma si alzasse. Poi prese ad aggiungere altri legnetti per farlo aumentare di dimensione e, dopo un tremendo minuto e mezzo in cui cominciò letteralmente a sudare (aveva deciso di allargare i tempi per l’incognita tenuta del calderone di pietra), gettò disperata la valeriana nel paiolo e mescolò sette volte in senso orario.
    “Ti prego, diventa blu, ti prego diventa blu, ti prego diventa b-”
    Nera. Era nera come la pece, e l’odore di bruciato si faceva sempre più intenso, i fumi minacciosi come saette.
    «Come va?» le urlò Andrea da dietro, arrivando di corsa e riversando altra acqua nel paiolo.
    «A questo punto non ho più speranze, spegniamo questa cosa prima di mandare a fuoco la foresta!»
    Cominciarono così a fare avanti e indietro dal lago al calderone, bagnando se stessi più che il composto e, dopo i primi momenti di panico e agitazione, Sam si rese conto che si stava divertendo come una pazza, malgrado fosse mezza zuppa o ricoperta di terriccio. Andrea era messo pure peggio.
    Alla fine riuscirono a domare le fiamme e a dare una parvenza di decenza alla mistura, accasciandosi al suolo supini, scossi dalle risa.
    «Aah, se le lezioni di pozioni fossero sempre così divertenti, sarei stato molto più attento in classe»
    «Puoi sempre proporlo al tuo insegnante, magari è d’accordo»
    «Oh, sì certo, e io sono mago Merlino»
    «Credo che dopo oggi non avrai più alcuna leva per minacciare il direttore sulla camomilla, visto che gliel’abbiamo bruciata tutta»
    «Meno burocrazia, meglio così. Visto? Bisogna sempre guardare al lato positivo»

    [...]

    Sam era così impegnata a ridere e scherzare con Andrea, sdraiata supina a godersi il fittizio spettacolo mozzafiato delle Dolomiti che si specchiavano sul lago, che non si accorse minimamente del ritorno della docente.
    «Professoressa Grael!» esclamò sorpresa quando uno scricchiolio risuonò nella piccola radura, inducendola ad alzarsi di scatto e a spolverarsi la divisa sporca e ancora umida. «Mi scusi, ci stavamo solo-» cominciò a spiegare, ma le parole della donna le troncarono l’incipit, costringendola ad uno stupito mutismo. Aveva sentito bene? Si stava congratulando con loro? Incerta, ponderando se per caso non avesse davvero annusato troppa lavanda, si scambiò uno sguardo confuso con il ragazzo, tiratosi in piedi a sua volta. Lui però non rispose, stringendosi nelle spalle con un sorrisetto sornione che la Caposcuola interpretò come un “Lascia perdere e goditi il momento”.
    Tornò dunque a fronteggiare l’insegnante, ricambiando incerta il suo sorriso mentre tentennava. «A dire la verità credevo che avessimo fatto un disastro, la pozione è persino bruciata… ma grazie» ammise, incapace di accettare le parole della docente con la consapevolezza di aver prodotto tutt’altro che il risultato stupefacente da lei menzionato. Non osò però aggiungere altro, annuendo all’invito di Medea ed afferrando la fialetta appena evocata per riempirla dell’intruglio tossico che avevano creato.
    «Tieni» fece, porgendola al diplomando mentre ridacchiava sottovoce. «Portala a casa e mettici sopra un’etichetta con un teschio prima che sia troppo tardi»
    Lui l’afferrò con aria lusingata. «Non credevo che avrei mai ricevuto una fialetta di veleno come souvenir, ma c’è sempre una prima volta» asserì, per poi intascarla con cura. Sam fece altrettanto, senza ancora accennare a raggiungere l’insegnante all’ingresso.
    «Penso che la farò analizzare da mia madre, magari scopriremo che ha qualche proprietà nascosta»
    «In tal caso mi riterrò offeso se non me ne metterai al corrente»
    ribatté lui con l’aria più contrita che riuscì ad assumere, prendendo la Cercatrice in contropiede. Sam tacque per qualche momento, le gote nuovamente rosse per la richiesta implicita nelle sue parole, il cuore che batteva a velocità più accelerata senza nessun motivo apparente. Poi però annuì con fare complice, frugando nella borsa fino a trovare una pergamena zeppa di appunti che avesse un margine sgombro, strappandone un pezzo ed afferrando al volo una penna. Meno di un minuto dopo, la O’Connor aveva già riposto il fogliettino con l’indirizzo di Andre nella tracolla, ponderando se ricambiare oppure no.
    «Non preoccuparti, attenderò il tuo gufo su quella sottospecie di Pozione Soporifera che abbiamo preparato»
    «Lo farò, lo prometto»
    gli assicurò lei sentendosi stranamente in colpa, forse un po’ troppo seriamente, prima di congedarsi dal ragazzo.
    «Ok, penso che andrò a dare un’occhiata alla Sala Italiana» le fece l’occhiolino lui. Quindi si rispolverò la divisa, fece un cenno di ironico rispetto a Medea «Professoressa Grael… » e si dileguò, lasciandola sola con la docente.

    Nashat aveva accennato a workshop e ad altre tavole rotonde prima di ascoltare la conferenza sulle ultime novità in ambito pozionistico, e la Tassorosso moriva dalla voglia di fare qualche altra attività prima di tornare a scuola, ma Medea le fece presente che era ormai ora di tornare al castello. Sam non indossava mai orologi e non sapeva con certezza che ora fosse, ma facendo una stima non le fu difficile immaginare che fossero ormai le sette passate e che a Hogwarts era già cominciata la cena. Era stata così concentrata ed euforica per quella gita che non aveva neppure fame, ma comprese con rammarico di non poter temporeggiare oltre, perciò si arrese ai saluti finali con un malcelato sospiro, ripromettendosi di tornarci anche l’anno successivo con o senza l’insegnante.
    Medea e Nashat si lasciarono con lo stesso abbraccio di quando si erano incontrati, e quando venne il suo turno di allontanarsi si rese conto di non essere più nervosa come all’inizio. Chissà, forse era stato merito di Andrea. «Arrivederci, Nashat! Grazie per oggi, e ringrazia ancora anche Nadia da parte mia» gli sorrise sincera, non del tutto in grado di colpevolizzarlo per l’assoluta serenità con la quale le aveva spiegato come venivano prelevate le parti di animale per le pozioni. Magari la vedeva così con rassegnazione, visto che fino ad allora non si era ancora trovato un modo per appropriarsene senza ricorrere all’omicidio.
    Alla fine Medea la incoraggiò a sbrigarsi e, di lì a poco, la O’Connor toccò la Passaporta predisposta per il ritorno e vorticò fino in Scozia. Le venne concesso qualche momento per riprendersi e, quando il sotterraneo smise di girare, Sam si avviò in direzione della propria Sala Comune per darsi una rapida rassettata prima di cena. «Moltissimo, grazie per avermici portata!» confermò. «Spero di poterci andare anche l’anno prossimo» aggiunse poi, dando voce ai propri pensieri. «Arrivederci» - “Buona cena” - «alla prossima settimana!»

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    SAMANTHA JENSEN O'CONNOR - Tassorosso
    14 y.o. | III anno | Neutral Good | voice | Sheet © Hoperus
    All’udire le spiegazioni di Duvall, Sam si dispiacque per la sorte dei vampiri con un sospiro, pensando che dopotutto, persino in un posto del genere c’erano delle limitazioni. Si domandò quale fosse la ragione dietro la non accettazione di quella categoria di esseri: se uno di essi era perfettamente in grado di controllarsi, e quindi di non nuocere agli altri studenti, perché non consentirgli di accedere all’Interculturale? Se il problema fosse stato (e ne dubitava) le loro inverse abitudini di sonno/veglia, era certa che una scuola come quella avrebbe saputo risolverlo, proponendo dei corsi solamente serali appositamente per loro, come già accadeva per centauri e maridi, impossibilitati a seguire tutti i corsi dei maghi.
    L’idea delle “olimpiadi” poi le piacque immensamente, e subito la sua mente cominciò ad edificare le maestose parate delle diverse specie, le pioggie di frecce, i balli e le luci degli incantesimi intrecciarsi in cielo. Ancora una volta, si sentì in colpa a pensare quello di Hogwarts, che amava come una seconda casa, ma la prospettiva di eventi simili avrebbe reso la scuola britannica ancora più magica ed unita. Il Quidditch era una competizione che separava le Case più che unirle, e gli unici altri giochi che si fossero svolti entro il suo perimetro erano culminati con il ritorno del più grande mago oscuro del secolo e la morte di un ormai ex-Tassorosso, che ancora oggi i discepoli di Tosca ricordavano con fierezza.
    Persino il metodo di ammissione di Atene rispettava le tradizioni e le culture delle tre specie principali che vi studiavano! Sam si ritrovò ad immaginare come sarebbe stato se anche a Hogwarts fossero stati istituiti quegli accorgimenti, e non escluse l’idea di farne parola con suo padre. L’uomo era un semplice membro della Squadra Speciale Magica, ma lavorando al Ministero magari avrebbe potuto discuterne con qualcuno dell’Ufficio per la Cooperazione Magica Internazionale o del settore dell’istruzione. Chissà.
    Ad interrompere il suo flusso di fantasticherie fu l’ascesso di tosse di Duvall. Sam sobbalzò, già pronta a liberargli le vie respiratorie, bacchetta in pugno, quando il Professore gettò il volto nella grande vasca della fontana spiazzandola completamente. La Tassorosso si scambiò un’occhiata incerta con le due Corvonero, come a voler questionare la sua già discutibile sanità mentale, quando una roca voce greca li accolse. L’insegnante proseguì nella sua missione di ridicolizzarsi agli occhi di chiunque, mentre il proprietario di quel timbro silvano si faceva avanti. Era un grosso centauro dalla chioma folta, il preannunciato Mr Tatoupoulos; o meglio, il Preside, insieme alla maride che, con un’emissione di suoni simili ad un gracchiante scampanellio, emerse dalla fontana, ed all’austera quanto splendida strega dagli occhi verde foglia – Mrs Metrodora -, la quali si unì per ultima al gruppo disomogeneo. Sam aveva studiato l’organizzazione burocratica di quella scuola a lezione, ma vedere effettivamente di persona tre individui così diversi sapendo che si dividevano la carica di Preside era stupefaciente, e senza neppure conoscerli provò un gran moto di simpatia per tutti loro. Trovare un accordo, per quanto aperti allo scambio, non doveva essere sempre facile, ma dovevano esserci riusciti egregiamente.
    Quando Duvall ebbe finito di sputacchiare fece le formali presentazioni e saluti – uno più caloroso degli altri – per poi incoraggiarle a dividersi e seguire il centauro o la maride. Sam corrugò le sopracciglia, combattuta e frustrata: si trattava di un’esperienza unica, perché limitarli a quel modo e non far provare loro tutto? Le foreste l’avevano sempre affascinata, ed i centauri le erano sempre parsi misteriosi e saggi a modo loro, ma essendo cresciuta in campagna aveva avuto molte occasioni di imparare a cavarsela anche senza bacchetta. Il mare invece era tutta un’altra storia. Le piaceva l’acqua, ma non era quasi mai stata in spiaggia se non a Plymouth un paio di volte, da bambina, e ovviamente mai aveva messo piede nel regno dei maridi, complici anche i regolamenti e la diffidenza della colonia di Hogwarts.
    La sua scelta, per quanto malinconica (il solo pensiero di annusare il profumo del bosco le infondeva grinta e serenità) ricadde quindi su Miss Nymphadora.
    Titubante, si avvicinò alla maride e ne osservò più da vicino, curiosa e discreta, la sua pelle azzurina, gli strani, tentacolari capelli ed i muscoli sottili ed affusolati. Si domandò come fosse vivere perennemente sott’acqua, se esistessero incantesimi che consentissero ai maridi di camminare sulla terraferma – magari una formula di Trasfigurazione – e se effettivamente quell’antico popolo provasse l’impulso di farlo. Quanto a lei, non credeva di poter rinunciare alle sue gambe.
    Miss Nymphadora intervenì quindi personalmente per introdurre il programma agli studenti che avevano scelto di seguirla e porse loro una viscida pianta composta da vari filamenti che parevano code gommose di topo. Una pianta estremamente familiare, dato che le aveva cercate con Rose l’anno precedente sul fondo del Lago Nero. Al pensiero di ingoiare quella cosa le venne il voltastomaco, ma si disse che la trasformazione sarebbe avvenua in fretta. In quella, si pose un problema: avrebbe dovuto nuotare con la divisa di Hogwarts indosso? Non che sarebbe stato tragico, un incanto temperante avrebbe rapidamente risolto la questione, a saperlo si sarebbe portata qualcosa di più pratico… A quanto pareva la Preside condivideva il suo pensiero, e anzi, sgridò bonariamente Shane per essersi dimenticato di avvisarli di portarsi dietro un costume. Quando il camerino comparve, Sam lo scrutò per qualche istante, preoccupata di cosa vi avrebbe trovato, ma alla fine frugò all’interno fino ad estrarne uno blu e bianco, con il disegno di uno squalo che aveva tutta l’aria di star per divorare la sirena in superficie. Subito le sue iridi scattarono preoccupate verso Miss Nymphadora, ma lei non parve farci troppo caso e la O’Connor lo infilò scuotendo la testa per l’assurda ironia del loro Professore. Quando fu pronta, il fresco vento mediterraneo sulla pelle, si immerse nella vasca, rabbrividendo ed appoggiandosi al bordo, prima di costringersi a ficcarsi l’algabranchia in bocca. La sensazione di amaro viscidume fu persino peggiore di quanto si fosse aspettata e quasi non rigettò.
    “No…Resisti e ingoia”
    Inspirò profondamente dal naso e, a costo di strozzarsi, mandò giù deglutendo senza neppure masticare. La pianta le raschio contro l’esofago, dolorante per la dilatazione innaturale, ma scivolò senza particolari problemi lungo il tubo finché Sam non cominciò a sentirsi soffocante. Capì al volo cos’avrebbe dovuto fare: senza nemmeno prendere fiato, si gettò sott’acqua, rimanendo poco sotto la superficie per poter riemergere in caso qualcosa fosse andato storto.
    Invece, poco alla volta e piuttosto dolorosamente, la Tassorosso sentì aprirsi dei buchi sotto le sue orecchie, sul collo, e le dita incollarsi da una membrana che le palmò anche i piedi. Inspirò, espirò, e l’acqua le passò attraverso le narici e le branchie come fosse aria liquida. Era una sensazione stranissima, probabilmente la più bizzarra che avesse mai provato, eppure quell’incredibile novità le diede la carica per ribaltarsi a testa in giù, seguendo la coda di Miss Nymphadora lungo un tunnel trasparente che dall’altopiano con la fontana collegava essa al mare. Il tubo doveva essere persino più lungo di quanto si fosse immaginata, perché dopo essere scesi di diversi livelli si ritrovarono a costeggiare aule per metà sommerse, piene di visi amichevoli e differenti per sesso e razza. Sam non poté fare a meno di ricambiare con un gesto della mano ed un sorriso, la chioma rossa che le fluttuava alle spalle come una viva fiamma.
    Via via che si avventuravano più in profondità, la Tassorosso avvertiva la temperatura cambiare. Avvertì quasi la pelle d’oca, ma lo sbalzo termico non fu eccessivamente violento e in meno di un minuto già ebbe smesso di tremare.
    Miss Nymphadora le precedeva, ed ora che si trovavano sott’acqua la sua voce prima stridente ora risuonava morbida e delicata come un canto angelico. Stava dando loro le coordinate della loro città ed altre nozioni con lo scopo di rassicurarli – “Accidenti, una coltivazione intera! Eppure è una pianta così rara!”. Ad esse aggiunse un’infarinatura di storia maride, i cui sovrani portavano nomi solenni ed araici, finché la vista del palazzo sottomarino non la indusse a cessare la lezione per dare il tempo ai visitatori di osservarlo. Sam aprì istintivamente la bocca, per poi richiuderla istintivamente un attimo dopo, momentaneamente dimentica di essere in grado di respirare sott’acqua, mentre con le iridi cerulee scrutava la fortezza tutta colonnati e tetti circolari che stanziava di fronte ad una scogliera colma di incavi scuri che dovevano essere grotte. No, anzi, i dormitori. Ancora una volta Sam subì lo “shock” culturale: era davvero un modo di vivere completamente differente da quello dei maghi: lei odiava chiudere le serrande prima di addormentarsi, adorava osservare le stelle e la luna attraverso i vetri, mentre una caverna subaquea doveva essere terribilmente buia e fredda la notte. Eppure i maridi non ne risentivano, e parevano perfettamente a loro agio con tutto ciò che li circondava. Forse anche lei avrebbe dovuto imparare a sapersi adattare.
    Poi, mentre si domandava se sua madre e sua zia avessero mai chiesto rifornimenti per la loro farmacia ad una greca, Miss Nymphadora li scortò oltre un’ampia arcata affiancata da colonne intrecciate di alghe e conchiglie di ogni stile architettonico fino all’ingresso del castello, dove ad attenderli c’erano quelli che dovevano essere alcuni studenti più grandi. Forse avevano persino una ventina d’anni dato quanto aveva affermato Duvall sull’età a cui le varie specie raggiungevano la maturità. Sam sorrise timidamente agli sconosciuti, piuttosto curiosi, e si spinse ad avvicinarsi a due di loro, che stavano indicando e sorridendo affascinati per le sue ciocche scarlatte, niente che appartenesse alla loro natura, e che probabilmente avevano visto di rado anche tra gli studenti maghi dell’Interculturale, data l’etnia.
    «Ciao» pronunciò, e la voce le fuoriuscì in una serie di bolle che deformarono il suo timbro e fumarono la parola rendendola incomprensibile. I due maridi invece parvero comprendere, perché risposero alla cordialità con le loro voci melodiose. «Ciao a te, e benvenuta! Io sono Anielka, e lui è Ujarak».
    «Molto piacere!»
    Il loro inglese era perfetto, solo un vaghissimo accento che la O’Connor non aveva mai udito lo macchiava.
    «Io sono Sam» no, non si sarebbe mai abituata a non capire ciò che diceva «il piacere è tutto mio!»
    «Allora, cosa vuoi vedere?»
    «Ehm… »
    la Tassorosso tentennò. Da dove partire? Escluse i dormitori e le aule – chissà, magari stavano facendo lezione, e lei non se la sentiva di diventare l’oggetto di interesse di tutti. Sapeva che c’erano anche delle piantagioni, ma avrebbe preferito visitare qualcosa di più particolare. Perciò scartando rapidamente le ipotesi raggiunse la sua conclusione. «Potreste portarmi alla mensa?»
    Ujarak rise. «Ma certo, ti ci accompagno io!» si offrì, facendo imbronciare Anielka.
    «E perché proprio tu
    «Perché tu sei pedante! Senza contare che ha già visto Miss Nymphadora, vorrà parlare anche con un maride maschio, presumo. E poi, guarda!» indicò con un lungo braccio verdognolo un punto oltre di loro. «Sta arrivando qualcun altro!»
    Anielka quasi ci cascò, ma nel breve lasso di tempo in cui la maride si prese la briga di controllare, Ujarak aveva già afferrato Sam per un braccio ed aveva cominciato a nuotare velocemente, come avesse un propulsore al posto della pinna, ridendo come un matto. La sua voce era uno scampanellio di cori bianchi e la O’Connor non poté fare a meno di sorridere mentre lo osservava. Aveva gli occhi completamente neri, lasciando solo una piccola porzione di iride bianca scoperta, ed in testa non aveva quasi tentacoli, o qualsiasi protuberanza che potesse somigliare a dei capelli.
    «Perché scappiamo? Sa dove siamo diretti» domandò Sam quando lui la lasciò, riprendendo a nuotare a velocità normale attraverso i colonnati ed i lunghi corridoi in più punti privi di coperture. Il sole filtrava attraverso i due kilometri d’acqua, creando giochi di luce tra le alghe, i preziosi ed i coralli.
    Ujarak rise di nuovo. «Perché mi piace prenderla in giro» rispose semplicemente, per poi virare a sinistra. «Per di qua»
    Il corridoio del chiostro si immetteva in una piccola anticamera dalla pavimentazione di pietra beige completamente spoglia che si apriva su un’altra arcata coperta da un velo di lunghe alghe rosse e verdi intrecciate. Ujarak ne scostò un paio e le tenne sospese, fluttuanti nella corrente. «Dopo di te»
    Sam arrossì e mimando un “grazie” con le labbra lo precedette.
    «Ooooh!» esalò in una scia di bolle quando vide l’interno. Non aveva niente a che vedere con la Sala Grande. Si trattava di un’immensa stanza sul cui soffitto era sospesa una grande conchiglia bianca, la cui immensa perla catturava la luce del sole e la rifletteva nella sala. In ogni angolo c’erano agglomerati di coralli, conchiglie, piccoli scogli, ciuffi di alghe pioventi dal tetto ancora una volta quasi assente, bassorilievi con incisa la storia maride, colonne spaccate che fungevano tanto da sedie quanto da tavoli e qua e là dei tronchi sprofondati da tempo immemore nei flutti, i cui nodi ospitavano granchi e molluschi. C’erano inoltre anfore lobate dai grandi manici di tradizione ellenistica che ospitavano bracci di petali e anemoni multicolori. Non doveva essere ora di pranzo, perché non c’era quasi nessuno, ma Sam non riuscì a distinguere insegnanti ed alunni tra i pochi presenti, intenti a gustarsi cozze, vongole, cappesante e qualche coloratissimo fiore marino che Sam non aveva mai visto. Ogni tanto qualche banco di pesci si insinuava tra le pareti fratturate in un fiume di pinne e arcobaleni.
    «Ma è… bellissima!»

    [...]

    Sam ebbe l’impressione che il tour fosse durato troppo poco, e quando a malincuore Ujarak la ricondusse alla piazza circolare designata come punto di ritrovo, la ragazza avvertì l’impulso di scappare, tornare indietro ed esplorare tutti i corridoi e le ale che aveva solo scorto tra una finestra ed un portico. A trattenerla era la consapevolezza che probabilmente si sarebbe persa in quel dedalo di colonnati, costringendo il Professore ed i Presidi dell’Interculturale a darle la caccia, interrompendo e disturbando le attività degli altri. Un gesto estremamente egoista insomma, che non avrebbe mai compiuto. Sorrise quando Miss Nymphadora batté le mani, in un bizzarro spettacolo da mimo privo di suono. La maride si avvicinò poi a tutti loro, e quando fu di fronte al duo che accompagnava la Tassorosso il suo sguardo si fece più tagliente. Anielka lo sostenne rispettosamente, in un atteggiamento che poteva solo voler dire che era certa di aver adempiuto ai propri compiti, mentre Ujarak arrossì, non del tutto a posto con la coscienza. A Sam dispiacque vederlo così indagato, perciò, in un tono timido che non adottava da anni, prese le difese del compagno.
    «Sì, mi hanno raccontato cose davvero interessanti, mi hanno anche regalato questo» la informò, ruotando leggermente il capo verso destra per mostrarle il fiore appigliato alle sue ciocche scarlatte, che fluttuava in ampie volute di rosa chiaro creando un delicato contrasto con i suoi capelli. Non era una menzogna. Mentre tornavano dalla mensa, Ujarak si era imbattuto in un paio di suoi amici e si era fermato brevemente con loro a discutere di qualcosa in maridese, senza che Sam potesse capire. Uno di essi aveva infine detto qualcosa rivolto a lei e le aveva porto il fiore da una cassetta che stava trasportando, prima di farle l’occhiolino e nuotare via. La O’Connor era rimasta sorpresa, le guance improvvisamente più colorite, e aveva domandato alla sua guida cosa fosse successo. I maridi avevano discusso su cosa fare quel pomeriggio e nei giorni successivi (e Sam aveva quindi appreso che le loro attività preferite erano esplorare grotte e fare delle specie di cacce al tesoro con pesci che amavano mimetizzarsi), dopodiché l’amico le aveva rivolto delle parole di apprezzamento. La cosa l’aveva lusingata più di quanto pensasse, soprattutto perché il suo costume assurdo non era esattamente rispettoso nei confronti del popolo del mare.
    Una volta che la Preside ebbe terminato il giro di ronda, concesse alle delegazioni un’ora di tempo per mangiare, e Sam si illuminò di contentezza all’idea di rientrare nell’edificio. Fece quindi per rivolgersi ad Anielka, ma la maride era già nuotata via da qualche altra parte, così Ujarak si strinse nelle spalle e la affiancò mentre rientravano.
    «Aah, lasciala perdere» commentò divertito, con uno sguardo carico d’affetto. Sam non voleva essere indiscreta, ma si chiese se per caso Ujarak non avesse un debole per la compagna. Il ragazzo però sembrò intuire al volo i pensieri della strega, perché rise in un melodioso insieme di notte chiare, per poi spiegarle che era sua cugina.
    «Oh» si limitò ad emettere Sam, mentre un’unica bolla lasciava le sue labbra e si disperdeva nel Mediterraneo.

    […]

    A quanto pareva gli amici di Ujarak parlavano inglese perfettamente, ed il maride che le aveva donato il fiore, Eustachios, parve piuttosto contento di averla seduta accanto a loro a tavola. Le avevano ceduto il posto sulla valva di una conchiglia, mentre loro si erano posizionati su alcune rocce dall’aria comoda ricoperte di soffice muschio. La mensa andava via via riempiendosi, ma i quattro avevano già quasi terminato il loro pasto prima che ogni colonna e sasso fosse preso dal resto della scolaresta. Sam aveva dovuto gentilmente rifiutare il pesce fresco che le avevano offerto spiegando che era vegetariana, così le avevano rimediato dei frutti di mare che gamberi e ostriche non erano, qualche particolare pianta commestibile e persino un’altra algabranchia, dato che la sua prima ora era ormai giunta al termine. Sam ingoiò il groviglio viscido disgustata, facendo ridere i maridi in un quartetto d’archi che risuonò nella sala.
    «Sì, sì, ridete… » borbottò lei con una bonaria occhiataccia «Beati voi che non avete bisogno di questa per respirare sott’acqua».
    Grazie a loro stava vedendo il mare come non l’aveva mai visto. Non solo, si trattava del Mediterraneo, le cui acque mantenevano sempre una punta di tepore nonostante fosse autunno inoltrato e, insieme alla luce solare quasi perennemente sfavillante nel cielo azzurro, conferivano ai fondali una vibrazione surreale, incantata e sospesa. Si era ritrovata affascinata dall’architettura antica, i modi affabili (così diversi da quelli dei maridi del Lago Nero!), dalla lingua grammaticalmente aspra e sonoramente armoniosa, e la varietà di flora e fauna, coloratissime e incantevoli, tanto che la sua iniziale ritrosia a vivere negli abissi era scemata di molto.

    Al suo ritorno nella piazza principale – stavolta ci era saputa arrivare da sola, senza chiedere nulla a Ujarak che la seguiva tranquillamente alle spalle – le delegazioni vennero radunate e Miss Nymphadora illustrò la successiva attività. Al pensiero di avere un avvicino tanto accosto, Sam si inquietò un poco, ma sapeva che il suo timore, almeno lì ad Atene, era ingiustificato. Certo non avrebbe osato stuzzicarli o infastidirli, ma sapere che non sarebbe stata strangolata era una prospettiva decisamente positiva. Le bighe che giunsero poco dopo, trainate ciascuna da una coppia di avvincini, erano nere come l’onice e dure come il corallo, splendenti con i loro intarsi di alghe. Alla prospettiva di una gara, la Tassorosso si esaltò più di quanto lei stessa si sarebbe aspettata, le membra frementi di aggrapparsi ad una delle bighe e cimentarsi nel gioco. Non pensava che sarebbe riuscita a vincere, ma non aveva dubbi che si sarebbe divertita un mondo.
    In un istante, Anielka si materializzò accanto a lei, meno spocchiosa di quanto si era mostrata poco prima. Evidentemente non apprezzava granché la costante presenza del cugino.
    «Ciao, Anielka!» salutò. «Sarai tu a insegnarmi?»
    La maride annuì con un sorriso, i tentacoli che aveva per capelli ondeggiarono tra i flutti. «Le corse con le bighe sono la mia specialità, saremo avversarie, più tardi» preannunciò. Sam ricambiò l’espressione gioiosa. Era contenta che tra i contendenti ci sarebbe stata lei, che non si sarebbe ridicolizzata di fronte a degli sconosciuti (non che le regole della scuola avrebbero consentito ad eventuali commenti discriminatori o derisori di passare inascoltati).
    «Non vedo l’ora di iniziare!»

    […]

    Anielka era un’istruttrice eccellente. Era paziente, precisa, adattava i consigli alle esigenze di Sam ed usava frasi semplici ed immediate che permisero alla Tassorosso di comprendere al volo i punti chiave. Il problema principale, a quanto pare, sarebbe stato che gli avvincini eseguivano solo comandi in maridese, così Anielka le aveva insegnato tre semplici termini (“veloce”, “avanti”, “piano”, “stop” e “gira”) in modo tale da essere in grado di gestirli autonomamente. Sam le aveva domandato se anche gli studenti maghi dell’Interculturale partecipassero a quei tornei e «Qualche volta» aveva risposto lei, sistemando le briglie «naturalmente, anche loro parlano agli avvincini in maridese, per esercitarsi con la lingua». Quelli erano i primi suoni che Sam apprendeva in lingua straniera, e ne fece tesoro, ripetendoli più e più volte ad Anielka, che la aiutò nel perfezionare la pronuncia prima di farla salire sulla biga.
    Nonostante vi fosse una superficie su cui posare i piedi, Sam non pensava che vi si sarebbe appoggiata date le piante palmate che si ritrovava, perciò si limitò ad aggrapparsi alle briglie. Queste erano fissate ai corpi degli avvincini con resistenti alghe ma morbidamente, così da non ferire le creature, ed un filamento più rigido all’interno consentiva loro di sferzare l’acqua rapidamente per non ledere alla velocità della biga. Aneilka le aveva mostrato come impugnare le redini con la mancina dominante – la maride era destrorsa -, avvolgendosele al polso così da avere un maggiore controllo, mentre avrebbe usato la destra come accompagnamento.
    Fortunatamente, Sam non avrebbe dovuto affrontare il problema di rimanere in equilibrio, dato che avrebbe fluttuato anche lei, perciò dapprima si focalizzò sul rettilineo e poi sulle curve. Ce ne sarebbero state tre, una a destra, una più ampia a “u” e una a sinistra che avrebbe ricongiunto il percorso al punto di partenza. Anielka la fece esercitare con tutte, ma se Sam riuscì a cavarsela con due di quei tipi, le sterzate a destra erano particolarmente complesse, perché richiedevano destrezza nell’avvolgersi le alghe di traino all’altro polso per rinsaldare la presa e guidare gli avvincini con maggiore decisione, senza confonderli.
    Quando l’ora stava per terminare, Anielka prese possesso della biga e condusse Sam all’arena in tutta fretta – la strega dedusse che fosse preoccupata perché l’effetto dell’algabranchia sarebbe svanito di lì a poco – e difatti quando approdarono all’ingresso, subito Miss Nymphadora le accolse reggendo in mano un’esemplare della pianta e scoccò un’occhiata di rimprovero alla maride. Sam ringraziò la Preside, ma non era affatto arrabbiata con Anielka e si premurò di farglielo sapere.
    «Oh, ci mancava» sbottò la sirena, focalizzando gli occhi acquosi su qualcosa alle spalle di Sam. Quest’ultima si voltò, solo per veder giungere un maride più alto di Ujarak, più muscoloso, dalla pinna particolarmente tagliente e le cornee lucide come quelle dei crostacei. La O’Connor sapeva che lì non avrebbe incontrato fenomeni di discriminazione, ma nessuno aveva detto niente sulla boria, e d’altronde sarebbe stato un po’ utopistico che ogni singolo studente dell’Interculturale avesse un animo buono e gentile.
    «Chi è?» chiese Sam, notando che la coda di Anielka aveva cominciato a sferzare a destra e a manca con palese fastidio.
    «Rakim» sputò, in una melodia sprezzante. «Anche lui corre con le bighe. È bravo, ma si vanta un po’ troppo».
    Sam avvertì una punta di amarezza in quelle parole, probabilmente il maride l’aveva sconfitta in più occasioni. Le dispiacque vedere Anielka, così orgogliosa, in quelle condizioni, così le fece una proposta.
    «Senti, è improbabile che io vinca, né è il mio obiettivo. Non so che premio abbia preparato la vostra Preside, ma per me il miglior pegno che potrei ricevere per questa competizione è vederti tagliare il traguardo per prima». Anielka era sbalordita, i grandi occhi increduli. «Voglio aiutarti a vincere, farò di tutto per tenere questo Rakim impegnato». Anielka sembrò ponderare la dichiarazione della strega. Sam sapeva che avrebbe voluto raggiungere il primo posto solo con i suoi meriti, ma sarebbe stato divertente vedere il grande campione in difficoltà contro una visitatrice esterna che non era mai salita su una biga prima d’allora, così accettò.
    «Facciamogliela vedere»

    […]

    Anielka, Sam e Rakim erano posizionati uno accanto all’altro sulla riga di partenza. Gli avvincini galleggiavano palpitanti davanti alle bighe lucide, mentre di fronte a loro si snodava il percorso, composto da tre rettilinei e tre curve, per un totale di due chilometri. Era poco, pochissimo, la gara si sarebbe conclusa in un attimo. Non ci sarebbe neppure stato il tempo di usare la bacchetta, e comunque la sua l’aveva lasciata nella borsa alla fontana, affidata alle attenzioni di Duvall.
    Sam si sentiva come prima di una partita di Quidditch, con il cuore tamburellante nella cassa toracia, le pulsazioni ripetute, accelerate che spingevano contro i timpani e la giugulare, i muscoli delle braccia tremanti, ma le mani ben ferme. Attorno a loro, tutto attorno al percorso, c’erano delle basse gradinate in pietra, spaccate in più punti, che fungevano da spalti. Non erano completamente occupate – di certo moltissimi studenti erano a lezione – ma c’era un consistente pubblico che gridava e acclamava in maridese. Tra i vari canti sconosciuti, all’improvviso si levarono delle parole in inglese, e Sam si voltò quasi di scatto verso quella fonte, individuando Ujarak e i suoi amici ad una ventina di metri di distanza, che stringevano uno striscione improvvisato e la incitavano chiamandola per nome. La ragazza si impose di non arrossire; invece, alzò il pugno in un cenno combattivo, e poco dopo la folla si placò, per permettere agli sfidanti di udire il countdown.
    Tre.
    Sam strinse saldamente le briglie, serrando la presa sulla destra, che avrebbe dovuto sfruttare nella prima curva.
    Due.
    Si voltò alla sua sinistra, per scambiarsi un cenno d’intesa con Anielka che, seppure concentrata, le sorrise complice. “Che vinca il migliore”, le aveva detto Rakim, beffardo. “Lo farò”, aveva ribattuto l’altra, provocatoria.
    Uno.
    Si sporse leggermente in avanti, per essere più aerodinamica (o meglio, idrodinamica), i capelli legati in una lunga treccia colma di acetabularia che le aveva portato Eustachios – sul serio, perché quel maride si portava sempre appresso delle piante? – per evitare che le finissero negli occhi, facendola sbandare.
    Via!
    Sam diede la sua stoccata, incitando con un «Avantii suoi destrieri. Anielka e Rakim erano schizzati in avanti come due proiettili, i piccoli avvincini galoppanti e agguerriti che tagliavano i flutti, mentre Sam avvertiva lo stomaco ribaltarlesi nel ventre, schiacciato contro la colonna vertebrale. Inspirava a pieni polmoni e le sue branchie lavoravano alla svelta, immettendo ossigeno ed espellendo acqua in eccesso. Aveva già provato quella sensazione durante l’allenamento, ma Anielka aveva ritenuto migliore che lei padroneggiasse un minimo le basi più che spingere la biga a tutta velocità, perciò non si attendeva una tale propulsione. I suoi avversari l’avevano staccata in fretta, e non poteva permettersi di far aumentare il distacco, o non avrebbe potuto aiutare l’amica a dovere. «Veloce! Più veloce gridò in un turbinio di bolle confuso, tanto che non seppe come gli avvincini fossero riusciti a capire il suo maridese.
    Ecco, la prima curva si avvicinava…
    «Piano, girate gridò, approfittando di trovarsi alla sinistra di Rakim per recuperare un po’ di vantaggio, anche se l’altro continuava a starle davanti. L’altra curva incombeva, a meno di cinquanta metri, e Sam si preparò ad affrontare il movimento centripeto della “u”. Avrebbe voluto rinsaldare meglio la presa sulla briglia sinistra, poiché la direzione del percorso ora sarebbe variata, ma gestire gli avvincini a quella velocità era estremamente più complesso di quanto pensasse. «Girate, girate! Forza, veloci li incitò, scuotendo le redini un paio di volte e ruotando i polsi, così da suggerire il senso da seguire. Forse però aveva ruotato un po’ troppo, perché uno dei suoi destrieri rischiò di urtarsi con l’altro ed il movimento confusionario per poco non fece deviare la sua biga fuori dal percorso. Sam la sentì inclinarsi, ed appoggiò un piede verso la sporgenza in modo da riequilibrare la carrozza. Se fosse stata in superficie, a quest’ora avrebbe sudato freddo. La rotazione della curva le fece girare la testa, e quando finalmente scorse il secondo rettilineo, diede ordine di accelerare senza nemmeno che la biga si fosse del tutto stabilizzata, sballottandola finché non riuscì ad approcciare la coda di quella di Rakim, fattosi d’un tratto più vicina. Capì solo in un secondo momento che stava rallentando per potersi immettere nell’ultima curva, poco più avanti, ma Sam non demorse. Mantenne la velocità ancora per qualche metro, salvo poi urlare «Piano, piano, ora girate, su!». La rapidità con cui era giunta all’ultimo tornante le aveva permesso di superare in toto la curva, l’anca sinistra premuta contro il bordo della biga per aiutarsi a sterzare prima di schiantarsi contro le gradinate e rimettersi in carreggiata cavandosela solo con un leggero graffio alla parte inferiore della carrozzeria. Si sentì immediatamente in colpa, pensando a quanto quelle carrozze fossero belle e quanto lavoro ci fosse dietro agli intarsi. Dopo la gara si sarebbe personalmente scusata con Miss Nymphadora per la sua avventatezza.
    Ma eccola, infine, sull’ultimo rettilineo del tracciato.
    «Via, al massimo, veloci! Veloci, veloci
    Gli avvincini presero a nuotare con ancora più vigore, agitando i tentacoli e quasi avvitandosi per poter accelerare, e Sam quasi temette di affogare per tutta l’acqua che stava ingerendo. Dagli spalti, i cori dei ragazzi si fecero di nuovo assordanti, la sua testa un turbinio di pensieri, mentre sentiva il ventre schiacciato contro il bordo della biga, proiettata così in avanti da temere quasi di cappottarsi e venire sbalzata fuori. Ad un certo punto non era più nemmeno riuscita a capire chi fosse dove, troppo concentrata ad evitare di schiantarsi che la promessa fatta ad Anielka era passata in secondo piano.
    E poi, sibilante come una freccia, tagliò il traguardo.

    [...]

    Come aveva immaginato, la corsa si era conclusa nel giro di pochissimi minuti, e una volta tagliato il traguardo Sam si sporse in avanti, incrociando le braccia sul parapetto della biga per affondarvi il volto ed respirare profondamente, le branchie che vibravano, troppo agitata per riuscire a recepire stimoli esterni. Era finita. Com’era andata? Com’era possibile che non si fosse accorta di niente?
    Poco a poco, inspirando ed espirando, si spinse a sollevare il capo – non osava immaginare in che condizioni versassero i suoi capelli, probabilmente tutta l’acetabularia che vi era intrecciata era volata via – e si guardò intorno. La folla era in giubilo: Eustachios e Ujarak si sgolavano più di chiunque altro, la Preside le sorrideva bonaria, Rakim era furente, e Anielka semplicemente raggiante. Il suo sorriso era come una fila di perle e le sue braccia vibravano, quasi incapace di trattenersi mentre si contringeva a rimanere ferma e immobile di fronte a Miss Nymphadora. Probabilmente era riuscita nel suo intento di rallentare il suo rivale, anche se non sapeva bene come.
    La maride prese la parola e si complimentò con lei per la corsa – “Oh, almeno non ho fatto una pessima figura” – e per il primo posto.
    “COSA?!”
    L’espressione di puro stupore sul suo viso doveva essere parecchio evidente, perché la Preside contrasse un angolo della bocca come se stesse per scoppiare a ridere. Sam, momentaneamente dimentica delle buone maniere, spostò lo sguardo da Miss Nymphadora agli altri sfidanti, e le emozioni che trasparivano dai loro volti marini si fecero d'un tratto più chiare. Aveva vinto. Sbatté le palpebre, strabiliata. Aveva vinto.
    Quasi in trance, tornò a guardare la Preside ed aprì le mani quando ella vi depositò una conchiglia contenente una lucidissima perla nera. Doveva essere un oggetto molto particolare e prezioso, perciò la Tassorosso si impegnò per concentrarsi sulle parole della sirena. Quando comprese di cosa si trattava si commosse (non che la lucidità delle sue cornee fosse visibile sott’acqua), e «Grazie» deglutì in una serie di piccole bolle. Non riuscì ad aggiungere altro, ma tanta era l’emozione nella sua voce che probabilmente la Preside l’aveva percepita ugualmente.
    Era ormai ora dei saluti. Sam annuì alle parole della maride, e insieme ai nuovi amici che aveva incontrato la seguì fino all’imboccatura del tubo. Lungo tutto il tragitto si era premurata di dare una seconda, una terza occhiata a tutto, alle sale, ai colonnati, alle piante multicolori e vorticanti, persino all’arena e alle bighe, già nostalgica all’idea di lasciare quel posto.
    Prima di imboccare il passaggio, Sam chiese a Miss Nymphadora qualche minuto per potersi congedare adeguatamente dagli altri, ed ella accettò, pur sollecitandola con gli occhi intelligenti di non impiegare troppo: l’effetto dell’algabranchia sarebbe svanito di lì a poco.
    La Tassorosso si voltò quindi verso il suo seguito. Anielka fu la prima a gettarle le braccia al collo, gioiosa come non mai, incapace di contenere l’eccitazione.
    «Hai vinto! Oddio, avresti dovuto vedere la faccia di Rakim! Glielo rinfaccerò per sem-». L’occhiataccia della Preside le impedì di terminare la frase. «Voglio dire», si rischiarò la gola, con un verso basso come un oboe. «Sei stata bravissima. Rakim ha molto da imparare!». Non le disse quale posto avesse guadagnato, ma suppose che le stesse benissimo così.
    Poi venne il turno di Eustachios, che si era portato dietro lo striscione e una cassetta colma di quei fiori rosei e di acetabularia che le aveva dato. «Prendili, ti stanno molto bene»
    Sam sentì un moto di tenerezza nei suoi confronti. «Non so se posso portarmi dietro tutta la cesta, ma ti prometto che molti di essi verranno con me!»
    Infine toccò a Ujarak, la cui stretta fu meno poderosa, ma altrettanto amichevole. «Ciao, Sam, è stato davvero grandioso conoscerti! Per favore, torna a salutarci qualche volta»
    La O’Connor annuì vigorosamente. «Ma certo che lo farò! Mi mancate già tutti» confessò dedicando a ciascuno di loro uno sguardo caloroso, per poi costringersi a distaccarsi.
    Li salutò con una mano palmata ed un sorriso enorme. «Ci vediamo presto!»

    Tornare a respirare aria e non acqua fu estremamente strano, e per qualche momento Sam tossicchiò, sputacchiando mentre appoggiava spossata la cassetta di Eustachios sul bordo di pietra del bacino ed avvertiva la sferzata di vento autunnale lambirle la pelle bagnata, facendole venire la pelle d’oca e battere i denti. Voleva solo cambiarsi, infilarsi la sua divisa e tornare al caldo.
    Come se le avesse letto nella mente, il Professore andò loro incontro, la aiutò ad issarsi fuori dalla fontana e, con un incantesimo temperante, la fece asciugare rapidamente, cosicché potesse indossare camicia, gonna e giacca senza inumidirli. Non appena si fu rivestita Sam acciuffò la sua borsa, vi depositò con cura la conchiglia con la perla e vi frugò concitata, finché non ne ebbe estratto la sua agenda. A passo svelto, tornò alla cassetta e prelevò qualche esemplare delle piante che Eustachios le aveva regalato, posizionandoli tra le pagine per farli essiccare.
    «Temo di doverle lasciare questa» accennò, ammiccando in direzione del cestino. «Ringrazi ancora Eustachios da parte mia. È stato un piacere anche per me, Miss. Arrivederci!»

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    SAMANTHA JENSEN O'CONNOR - Tassorosso
    17 Y.O. | VI anno | Headgirl, Seeker & Captain | voice ϟ ©Hoperus
    La Tassorosso si decise a sollevare lo sguardo sulla docente solo una volta terminato il suo lungo sproloquio, consapevole che le iridi della professoressa non l’avevano mai abbandonata. Si sentì immediatamente a disagio, timorosa di aver detto troppo, troppo poco, o di aver formulato ipotesi campate per aria, ma la domanda che Medea le pose non aveva niente a che vedere con le teorie della Cercatrice. Il quesito la prese in contropiede, e subito un moto di senso di colpa si impossessò del suo petto, mentre cercava in tutti i modi di non suonare falsa.
    «Sì… ». Ritenta. «Beh, è stata una settimana molto pesante e ho varie cose per la testa, ma sto bene. So che suona paradossale, ma quando sono molto stanca tendo a straparlare». Quell’ultima parte era vera, eppure tentennò ancora qualche istante, consapevole che come giustificazione non sarebbe bastata. «Probabilmente la gita di oggi è proprio ciò che ci vuole per riscuotermi un po’» e abbozzò un sorrisetto, sperando che il suo ottimismo convincesse la Grael del suo stato di salute. Sam era una pessima bugiarda, ma la ex-Serpeverde, per quanto insistente, decretò infine che potesse viaggiare, al che la O’Connor poté tirare un silenzioso sospiro di sollievo.

    […]

    Solo una volta al Ministero della Magia, all’interno dell’Ufficio Auror, comprese perché fosse stata così docile: se non avesse voluto rispondere onestamente di sua spontanea volontà, l’avrebbe costretta.
    “Oh, no”
    Panico.
    Samantha sbiancò, gli occhi sgranati, e per poco non le venne un capogiro. Perché, perché non era rimasta in dormitorio?! Perché aveva dovuto costringersi a scendere nei sotterranei? Si metteva male. Non aveva idea di cosa Medea le avrebbe chiesto, ma quella strega era capace di tutto… e se avesse scavato nel personale? Se l’avesse forzata a rivelarle del suo incontro con Nathan e delle sue bravate con il L.A.T.T.E? Quasi le veniva da piangere per l’angoscia. Non poteva tradire i suoi amici, non avrebbe mai potuto perdonarselo, Veritaserum o meno. Loro non l’avrebbero perdonata. Se anche la Grael le avesse chiesto solo cosa le stesse passando per la testa, allacciandosi alla sua precedente scusa, sarebbe stata la fine. Era come se si trovasse ancora nel vortice della Metropolvere, che avevano preso poco prima passando attraverso il camino dello studio della docente. Sam ci era stata solo un’altra volta, per chiederle il permesso di poter accedere ad uno speciale libro nel Reparto Proibito.
    “Oh, Tosca, no, per favore”
    Avrebbe potuto scoprire dei suoi incubi, le avrebbe rinfacciato le proprie ammonizioni, forse persino alterato la memoria per garantirle qualche notte di sonno tranquillo… Il nervosismo andava crescendo, e con esso l’adrenalina e la rapidità dei suoi battiti cardiaci. Se non altro, la sua speranza si era avverata: era molto più sveglia di prima. Peccato che non le sarebbe servito a molto. Non potevano andare direttamente al RECDCM o all’Ufficio Incidenti? Era davvero necessario che fosse lei ad assumere il siero della verità? Non poteva piuttosto fare la parte dell’Auror? Il nodo alla gola era ormai stretto come un cappio, le orecchie sorde al caos dell’atrio, al trillo dell’ascensore o al vocio degli Assessori.
    Stava cercando disperatamente un modo per cavarsi da quell’impiccio, fingendo di ascoltare le spiegazioni della Grael a proposito dei cacciatori di maghi oscuri e delle caratteristiche della prima pozione che avrebbe dovuto bere, sicuramente già elencate esaustivamente nel libro di testo.
    E poi, l’ex-Serpeverde tacque, un’ampolla con il contagocce stretta in mano. Ovviamente, il suo “se me lo permetti” era un inciso di circostanza che poteva essere benissimo tradotto con “non hai scelta”.
    “No, no, no…”
    Forse non avrebbe esagerato. Forse sarebbe stata clemente, o magari sarebbe stata in grado di controllarsi almeno un po’. Ma poi si diede dell’idiota: era di Medea che si stava parlando, ed immaginarla nei panni della persona clemente era pura fantasia.
    Si morse le labbra, i pugni serrati: più avrebbe temporeggiato, più la donna si sarebbe incuriosita. Che cosa mai le potesse interessare, delle informazioni che le avrebbe scucito, per la O’Connor era un mistero – non che avesse intenzione di scoprirlo.
    Era così tesa che riuscì a malapena ad annuire, prima di accasciarsi su una sedia lasciata libera da un Auror e tendere in fuori la lingua, le unghie che continuavano imperterrite a tormentarsi la carne morbida delle dita. Forse una goccia non sarebbe stata così letale, forse, per quanto inesperta, aveva sufficiente potenziale magico per resistere all’impulso di aprirsi con l’insegnante.
    La goccia che le cadde in bocca era inodore ed insapore, ma lì per lì non percepì alcunché, domandandosi se per caso non fosse avariata. Si sentiva esattamente come prima, agitata ma più che capace di mantenere le labbra serrate.
    Almeno finché la Grael non le pose la prima domanda.
    «Dunque… » cominciò con lentezza, le pupille della Caposcuola che la seguivano come rapite. «Fingiamo per un attimo che io non voglia credere alla storia della settimana pesante. Come mai oggi sembri più esagitata che Juice in overdose da succo?»
    «Perché sono stanca» enunciò la ragazza candidamente, prima ancora che potesse pensare a come formulare la risposta. «Quando sono stanca parlo molto velocemente»
    Medea sembrava sospettosa, mentre Sam, da qualche parte nel suo cervello, si chiedeva se fosse stata lei stessa a replicare in quel modo o una sua parte inconscia. In ogni caso, era terrorizzata all’idea che la strega indagasse oltre.
    «Mmh, sì, questo l’hai già detto. Ma non è tutto, no?»
    «No»
    . Dannazione. Una sola goccia non bastava a farle rivelare tutto subito – per fortuna – ma ad ogni secondo che passava si rendeva sempre più conto che sfuggire sarebbe stato impossibile.
    «Dimmi di più»
    «È anche colpa degli effetti collaterali della Bevanda della Pace»
    «E perché mai hai fatto uso di questa pozione?»
    «Sono molto stressata in questo periodo e ne ho assunta un po’ troppa. È come se fossi in crisi di astinenza adesso, perciò anziché rilassata mi sento molto tesa»
    «Come mai tutta questa agitazione? I G.U.F.O. li hai passati l’anno scorso»
    . Sembrava quasi materna, la Grael, con quel tono.
    «Sento come se stessi perdendo il controllo su tutto quanto… troppi corsi, gli allenamenti di Quidditch, le riunioni del Furmageddon a Londra nel weekend… ». Tre esempi potevano bastare. O almeno, in qualche modo si era autoconvinta che fosse così, escludendo il L.A.T.T.E. dall’elenco. E poi, effettivamente, i meeting con i vendicatori di Hogwarts non la disturbavano granché.
    «Perché non abbandonare qualche materia e goderti un po’ i tuoi ultimi anni?»
    «Perché non so cosa fare… »
    «Cioè?»
    «Dopo Hogwarts. Non ho idea di cosa fare. Ma non voglio limiti, voglio poter fare tutto, se dovessi desiderarlo. E non posso farlo se non ottengo il diploma in tutte le discipline»
    «Se studiare per te è così importante, perché allora non lasciare la squadra di Quidditch? Perché accettare la spilla da Caposcuola? È una grande responsabilità»
    «Gli altri Tassorosso. Loro si fidano di me. Mi stimano. Mi ritengono infallibile, un esempio da seguire. Che guida potrei essere se non riuscissi ad autogestirmi?»
    «Sembra proprio che tu voglia disperatamente rovinarti l’adolescenza»

    Sam non sapeva cosa rispondere. Era la verità? Era davvero così masochista?
    «Pensi veramente che smetterebbero di ammirarti?»
    «Forse»

    Medea strinse le labbra, continuando a passeggiare nell’ufficio.
    «A me sembra piuttosto che temi il tuo stesso giudizio»
    La Cercatrice continuava a tacere. Non era una vera domanda. Eppure…
    «Sì»
    E riecco le cornee che pizzicavano. Basta.
    “Ti prego, fa’ che cambi argomento”
    Era una questione troppo vasta. Avrebbe dovuto mettere in mezzo sua sorella, la sua famiglia, i suoi fallimenti…
    «Mi auguro che almeno, in tutto ciò, tu abbia qualche valvola di sfogo»
    «Sì». Stavolta l’affermazione fu molto più leggera, come se si fosse liberata di un peso. Ripensò alle risate con i suoi amici, a Lara, ai pomeriggi con Crumb che le faceva le fusa in grembo e si sentì subito meglio, più serena.
    «Grazie a Salazar» imprecò, in tono quasi scherzoso. «Sarei rimasta molto delusa se una ragazza carina e sveglia come te non fosse stata in grado di trovarsi un hobby. Anzi, sarei ancora più sorpresa se non avessi un ragazzo!» e rise, trovando apparentemente la cosa molto buffa. Poi proseguì, la voce subdola. «Ormai ti vedo nella mia aula da sei anni, e se ti sei ingraziata Audrey sei praticamente di famiglia, con me ti puoi confidare»
    Oh, no.
    «Su, chi è lui?»
    «Non ho un ragazzo»

    Era vero. Lui non era il suo ragazzo.
    «Ma c’è qualcuno che ti piace, no?»
    «Sì»

    Umiliante. Era semplicemente umiliante.
    «E tu piaci a lui?»
    «Penso di sì»
    «Scommetto che non è della tua Casa, però, ho ragione?»
    «Sì»

    Basta, basta!
    “Ti prego, fa’ che l’effetto finisca in fretta!"
    «Serpeverde?»
    «Più o meno»

    La Grael sembrò provare un senso di orgoglio per quella piccola conquista dei verdeargento. «In che senso?»
    «Beh, era un Serpeverde, ora non studia più a Hogwarts»
    «Ooh, un diplomato? E cosa fa adesso?»

    Sam quasi si morse la lingua per non raccontarle della latitanza di Nathan.
    «Si allena, studia magia». Era vero, ma vago abbastanza, no? Avrebbe potuto ipotizzare che frequentasse la LUM.
    «Tu pensa! Beh, spero per voi che funzioni»
    «Grazie» esalò la Tassorosso, stremata. Che altro voleva, da lei?

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    AMORTENTIA
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    SAMANTHA JENSEN O'CONNOR - Tassorosso
    17 Y.O. | VI anno | Headgirl, Seeker & Captain | voice ϟ ©Hoperus
    Sam si sentiva in costante sospensione, come se fosse continuamente sul punto di parlare ma si scordasse all’ultimo ciò che voleva dire. Il suo cervello si ostinava a spedire alla sua bocca l’input di vuotare il sacco, di sciorinare una qualunque verità le venisse in mente, ma ad un certo punto Medea si limitò a consolarla ed incoraggiarla, tanto che la Caposcuola la scrutò sconcertata: da quando in qua la Grael era così empatica? O forse si stava solo scusando in anticipo per ciò a cui l’avrebbe sottoposta di lì a poco?
    «Sì, e vorrei che bastasse» commentò con un filo di voce.
    Più che rimuginare sulle intenzioni della strega, però, la Tassorosso rifletté con frustrazione sulle rassicurazioni appena ricevute: se erano timori così normali, perché non aveva mai visto nessuno nelle sue stesse condizioni? Non conosceva nessun altro che seguisse tanti corsi quanto lei, nessuno che si fosse preso altrettanti impegni e responsabilità, nessuno che non potesse vedere il proprio… le persone a lui o lei care senza il rischio che venissero fatte fuori, nessuno che sognava i demoni di un libro proibito.
    Espirò, frustrata. Ora stava facendo la vittima melodrammatica, una delle cose che più trovava irritanti, perciò si costrinse a far deviare i propri pensieri sul discorso dell’insegnante. Medea le confermò le sue teorie sulla Pozione Antilupo, ma le comunicò anche che la visita al RECDCM era saltata. La O’Connor sollevò un sopracciglio, curiosa (come avrebbe fatto altrimenti ad osservare gli effetti dell’infuso che le aveva appena descritto?), ma si limitò a trotterellare accanto alla professoressa finché non notò la targa sulla porta a vetri che avevano appena raggiunto: Ufficio degli Incidenti Magici, proprio come uno dei piani del San Mungo. Chissà, forse questa era una sorta di infermeria casereccia, o magari un punto d’osservazione per alcuni esperimenti non eccessivamente rischiosi che non necessitavano la supervisione dei Guaritori.
    Era abbastanza impaziente da essersi lasciata alle spalle l’angoscia di poco prima, eppure la Grael sembrava volersi accanire su di lei, e stavolta in maniera persino peggiore che con il Veritaserum.
    Amortentia.
    «Sta scherzandole scappò, prima di mordersi le labbra, gli occhi sgranati. Tuttavia non era tutto, perché non solo avrebbe dovuto bere il filtro d’amore, ma persino uno che aveva subito un errato processo di preparazione!
    Istintivamente Sam fece un passo indietro, valutando quanto in fretta sarebbe riuscita a raggiungere i camini dell’Atrio per tornarsene al castello. Era troppo, decisamente troppo. Le sue iridi scivolarono sui Ministeriali presenti, supplicandoli di fare qualcosa e salvarla da quella situazione, ma quelli non mossero un dito, continuando a registrare le reazioni delle loro cavie. I denti affondarono ancora di più nella carne delle labbra. A cosa diavolo poteva servirle testare su di gli effetti di un’Amortentia scorretta?! Tanto, se mai le fosse ricapitato, sarebbe stata fin troppo ossessionata dall’oggetto dell’infatuazione che non avrebbe potuto farci niente! Esattamente com’era accaduto per il siero della Verità, in effetti. Quello era puro sadismo. All’improvviso le montò dentro un tale astio che si sorprese di se stessa: come poteva un’insegnante torturare così i propri alunni? Com’era possibile che nessuno si fosse mai lamentato di quella parte del programma? Figurarsi, Medea metteva tutti fin troppo in soggezione, nessuno avrebbe mai osato andarle contro. Ma lei sì: aveva trovato la sua nuova, perfetta vittima per i progetti del L.A.T.T.E.
    Consolata dalla promessa di vendetta, la O’Connor recuperò la propria determinazione e, con sguardo deciso, si avvicinò al tavolo con le boccette. Ciascuna aveva una differente sfumatura ed era etichettata secondo una sequenza numerica, ma sapeva che erano odore e fumi a identificarla realmente come tale. Chiese dunque ad uno degli assessori presenti di poterne annusare una e lui, con rigore professionale, stappò quella che aveva di fronte, accostandogliela alle narici. Subito Sam venne investita da una serie di odori familiari, sentori che amava ed altri che la fecero quasi commuovere. Eppure c’era qualcosa di sbagliato, una nota troppo intensa, un’altra troppo dolce o troppo acre, che rendevano l’aria salmastra della brezza marina troppo pungente, il tepore del cottage di famiglia soffocante, il profumo intenso e stemperato dall’umidità londinese della nuca di Nathan, quando l’aveva riabbracciato, sporco della fuliggine dei gas di scarico. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto bere qualcosa che emanava effluvi tanto sbagliati? Forse, in genere, veniva assunta nel cibo, senza quindi rischiare che le percezioni olfattive tenessero alla larga la vittima. D’un tratto si sentì molto meglio al pensiero che fosse una pozione Illegale, o avrebbe cominciato a dubitare di ogni singola pietanza che avesse messo in bocca.
    Senza tergiversare troppo, Sam ne bevve un sorso rassegnata: se non altro, qualunque stupido comportamento avrebbe assunto di lì a poco sarebbe stato da attribuirsi all’Amortentia, niente di troppo diverso dalle sciocchezze commesse quando aveva assunto la Pozione Contraria. Aveva baciato Audrey Hastings quella volta, cosa poteva esserci di più assurdo?
    Non che la miscela le diede il tempo di trasmettere l’impulso neurale seguente alla cellula successiva, e d’altronde che importanza aveva? Come poteva avere un qualche significato degno di nota un qualunque suo pensiero di fronte alla perfezione dell’Ampolla che reggeva tra le mani? Perfettamente liscia, armoniosamente trasparente, la sua superficie di cristallo rifletteva con eleganza le luci della stanza, restituendola al suo sguardo con bagliori rosati e aranciati e facendo risplendere il liquido in essa contenuto quasi fosse velluto dorato. Era l’oggetto più prezioso che avesse mai visto, l’unico la cui esistenza meritasse protezione e devozione. La sua protezione e devozione, perché nessun altro avrebbe mai potuto amarLa come La amava lei. Chiunque altro sarebbe stato maldestro, noncurante, sprezzante, avrebbe graffiato i suoi bordi con le unghie, infilzato il tappo, lasciato ditate sul cristallo purissimo che mai avrebbe dovuto essere insozzato. Fu con un certo orrore che si rese conto che lei stessa, tenendoLa in mano in quella maniera profana, Le stava mancando di rispetto: le sue pupille dilatate si spostarono dunque sulla sala e, con uno scatto felino, intercettò il moto insensato di una delle cavie strappandogli il fazzoletto dal taschino. Era uno di quegli arnesi di bellezza che non veniva mai utilizzato, ed infatti emanava il lezzo chimico del sapone. Niente a che vedere con la perfezione distaccata della Boccetta, quasi appartenesse ad un altro piano della realtà. Il mago neppure si lamentò della debita appropriazione, continuando a dedicarsi a qualunque cosa stesse facendo, ed in quella il Ministeriale che le aveva concesso di scoprire un oggetto tanto divino allungò le mani per sottrarglieLo. Sam, però, fu rapidissima, e nel momento in cui notò le dita dell’uomo entrare nel suo campo visivo, gli tirò un poderoso pugno sul naso con la mancina, lo sguardo imbufalito, saltando all’indietro per evitare che potesse riprovarci. Un nemico! Un infedele!
    «Non si azzardi mai più a fare qualcosa del genere! MAI
    Le iridi, quasi invisibili data l’eccitazione, sondavano ora l’intera sala con diffidenza, incurante dell’epistassi che aveva appena provocato. Traditori! Usurpatori, ladri! Come osavano avvicinarsi tanto alla Fiala? A che cosa gli sarebbe servita? Volevano berLa? RivenderLa? FonderLa? Arricchirsi? MetterLa in mostra? No, nessun essere, umano o meno, avrebbe mai compreso la Sua grandezza, la natura trascendentale della Boccetta. Doveva rimanere segreta, doveva rimanere nascosta. Senza attendere un altro attimo, Sam se la fece scivolare con un singulto di piacere nella tasca del lungo mantello della divisa e piegò le ginocchia, il corpo lievemente reclinato in avanti, pronta a combattere. La brama era nella natura degli uomini, sapeva per certo che avrebbero cercato di sottrarglieLa e si sarebbe opposta fino all’ultimo respiro. Lei, e solo lei, poteva ricoprire l’onorevole carica di Somma Sacerdotessa della Fiala.
    «Non La avrete mai ribadì ululando.
    Uno degli impiegati blaterò qualcosa mentre i colleghi si appuntavano quanto detto, limitandosi a sostare ai loro tavoli, ma quando una strega, nei suoi moti insensati, le andò a sbattere contro, la Tassorosso ringhiò e la spintonò via con forza.
    «Eretica! Non ti avvicinare alla Fiala!»
    Nemici. Erano tutti nemici. Non poteva fidarsi di nessuno. Doveva scappare. Doveva metterLa in salvo. All’istante cominciò a cercare una via d’uscita, e quando scorse la porta a vetri vicino alla quale sostava Medea, prese subito a correre in quella direzione. Dovevano solo provarci, a fermarla!
    «Spostati!» ordinò all’insegnante, incurante dell’assoluta mancanza di rispetto con cui le si era rivolta, mentre la scostava di lato e serrava le dita sulla maniglia.
    Ma fu troppo lenta. Uno dei maghi le fu subito addosso, tenendole le braccia attorno al corpo per impedirle di muoversi mentre lei si dimenava come un’ossessa.
    «Lasciatemi! LASCIATEMI, HO DETTO! LIBERAMI, STUPIDO OMUNCOLO!»
    Era furiosa, cercava in ogni modo di scalciare per fuggire, ma quel tizio era più forte di lei. C’era una sola cosa da fare: tirò indietro il capo con forza e gli diede una testata dritta sul setto nasale. L’uomo gemette, e lei fu libera. Stavolta non l’avrebbero fermata-…
    Ma a metà del suo scatto verso la porta inciampò, le gambe bloccate al terreno, incapace di rialzarsi. La Fiala…
    «La Fiala!»
    Terrorizzata, cominciò a tastarsi il mantello per assicurarsi che non si fosse rotta. Era integra, al sicuro nel fazzoletto, e La strinse gelosamente a sé per impedire a chiunque di sottrarglieLa; nel frattempo, cominciò a rovistare alla ricerca della bacchetta. L’Incanto della Pastoia aveva un semplicissimo controincantesimo, e quello non era stato che uno sciocco contrattempo. In men che non si dica sarebbe stata fuori di lì…
    «AAARGH! VATTENE VIA! ALLONTANATI!»
    Il suo urlo era acuto e furibondo come quello di una Banshee: un altro Eretico aveva provato a levarle la Boccetta dalla mano, fallendo, ma adesso erano in tre ad avvicinarsi. Bacchetta o Fiala? Combattere o resistere? Sapeva che non avrebbe potuto sopraffarli, che altri sarebbero arrivati a dar loro man forte. Tutto ciò che poteva fare era difendere l’Ampolla con ogni altro mezzo possibile mentre si trovava inchiodata al pavimento. Schiaffi, pugni, graffi, morsi, gomitate… ogni colpo andava a segno con sua grande soddisfazione, ma più reagiva, più Ministeriali sopraggiungevano per bloccarla.
    Alla fine, con un lavoro congiunto, riuscirono nel loro infido intento, e Sam sgranò gli occhi, terrorizzata e colma d’odio.
    «NOOOOOOOOO! RIDATEMELA! METTETELA GIÙ, SCHIFOSI, NOOOO!»
    La gola le raschiava per quanto stava strillando, mentre lacrime di impotente dolore le scorrevano sulle guance e potenti singhiozzi le scuotevano le membra. Era così sopraffatta dal tormento e dal desiderio che non cercò neppure di impugnare il proprio noce, limitandosi a strisciare sul pavimento con le braccia protese finché il blocco alle gambe glielo consentiva.
    «RIDATEMELA, NON SIETE DEGNI, NOOOO!»

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    IL SOLDATINO DI STAGNO
    BAB PG1

    SAMANTHA JENSEN O'CONNOR - Tassorosso
    17 Y.O. | VI anno | Headgirl, Seeker & Captain | voice ϟ ©Hoperus
    Malgrado fossero accomodati ciascuno al proprio banco, Sam aveva l’impressione che quella lezione si stesse svolgendo in cerchio come quelle della Santos Diaz, una tavola rotonda in cui ciascuno era chiamato a dire la propria ed esporsi di fronte ai compagni. In più di un’occasione la Caposcuola si stupì delle risposte che udì, prendendo distrattamente nota delle professioni menzionate per stilare un albo mentale: un paio di erbologi, magizoologi, altrettanti magiavvocati, altri ricercatori… si sorprese soprattutto del senso di giustizia di alcuni, specie data la loro età, ma suppose che parte del loro interesse per il tema dell’unione fra comunità magica e babbana fosse dovuto anche al periodo storico che stavano vivendo, in cui le tensioni non facevano che crescere. Ethelred in particolare la prese in contropiede per ben due volte, sia quando professò di voler diventare un penalista, sia quando Savannah lo ringraziò pubblicamente per averla aiutata a superare almeno in parte i suoi problemi con il volo, ed in quella la Tassorosso si sentì immediatamente stupida e superficiale. Per quanto si impegnasse, infatti, c’erano dei luoghi comuni fin troppo radicati in lei, anche a causa dei suoi personali trascorsi, che l’avevano resa sempre sospettosa nei confronti dei Serpeverde, e ascoltare le idee di Maljoy fu come inspirare una boccata d’aria fresca. Si augurò che fossero così positivi anche i suoi concasati, cosicché forse, prima o poi, avrebbero investito il nome di Salazar di accezioni più positive rispetto a quelle calcificate nel corso dell’ultimo millennio. Notò anche che il discorso di Diaspro a proposito delle scienze aveva toccato punti molto simili a quelli di Smith, eppure i due non potevano avere personalità più differenti, e rimase stizzita nel constatare quanti non amassero la geografia. Davvero conoscere il mondo ed ampliare le proprie prospettive era un’idea così noiosa per loro? La materia più singolare citata fu però filosofia, ed ascoltando Lizzie la Cercatrice si scoprì inaspettatamente d’accordo con lei: sarebbe stata molto infastidita dal dover studiare il pensiero degli altri senza poter dire la propria fino in fondo. E poi, cos’aveva permesso a certe persone di venire annoverate fra i saggi rispetto ad altri? Era a causa dei loro scritti? O solo perché avevano fatto affermazioni insolite per i loro tempi? La studentessa che più di tutte suscitò le sue simpatie, invece, fu Rie, che oltre a confessare il suo amore per l’erbologia le parve molto matura e di ampie vedute. Senza dubbio in futuro sarebbe diventata una strega brillante.
    “Chissà cos’avrebbe detto Nathan…” si ritrovò a fanasticare, incrociando le braccia sul banco e reclinando leggermente il capo all’indietro, lo sguardo perso nel nulla ed un fitta nel petto. Non avevano avuto abbastanza tempo per parlare di certe cose, e a undici anni scambiarsi opinioni su una futura carriera era l’ultima delle sue preoccupazioni, ma adesso quasi rimpiangeva di non averlo fatto. Se le cose fossero state diverse, se Nathan non fosse stato costretto a nascondersi, come sarebbe stata la sua vita? Che strada avrebbe intrapreso? Più ci rimuginava, più percepiva nascere dentro di sé il bisogno di renderlo partecipe della propria vita, un lieve sorriso sulle labbra. Forse era un po’ troppo prepotente da parte sua volerlo includere nei suoi piani, specie dopo aver trascorso l’intera adolescenza fra quattro mura e senza poter lanciare uno straccio di incantesimo in tutta sicurezza, e di sicuro non si arrogava il diritto di imporgli alcunché, né si illudeva di conoscerlo fino in fondo, ma era convinta che il suo più grande desiderio, ora come ora, fosse la libertà. Pochi mesi. Solo pochi mesi ancora e sarebbe diventato maggiorenne. Avrebbero potuto vedersi, quell’estate. E poi, in futuro, se lui fosse stato d’accordo e lei fosse riuscita davvero a inseguire l’imprecisa via che sperava, avrebbero potuto viaggiare insieme. Avrebbero potuto ammirare i panorami più assurdi e le magie più arcane, isolarsi da tutto e da tutti e parlare fino a notte fonda di qualunque cosa. Sì, bramava l’arrivo di quel quattordici aprile più di quanto non avesse atteso il ventidue settembre.
    Era così assorta che solo il silenzio seguito dalla voce della docente la riscosse dalle proprie fantasie, e con imbarazzo si guardò intorno per cercare di capire se qualcuno stesse aspettando un suo intervento o se l’insegnante fosse passata semplicemente all’argomento successivo.
    Non parve essersi persa granché: la Sullivan corresse una delle opinioni di Lea, anticipando che avrebbero affrontato la questione economica in un altro momento, dopodiché passò con calma e chiarezza alla questione morale e ai libri d’infanzia, evidenziandone i punti di contatto con le classiche fiabe di Beda il Bardo ed invitandoli a scegliere un racconto da animare con un incantesimo olografico.
    Così, dopo aver corrugato le sopracciglia, perplessa per la disposizione degli argomenti sul libro di testo e le poche pagine dedicate a ciascuno di essi – che fosse una semplice introduzione? - si focalizzò sul memorizzare il meccanismo della fattura, ponderando se il risultato finale sarebbe stato simile a quello delle foto animate e cosa spingesse la magia a comprendere quale fosse il modo più coerente di dar vita e parola ad un’immagine così realistica. Magari quella sorta di esistenza bidimensionale era uno dei motivi per cui i maghi non fossero così angosciati dall’idea della morte, anche considerato quanto a lungo vivevano. Quella che era una questione filosofica non da poco.
    Ridacchiando fra sé e sé, si esercitò un paio di volte nel movimento del polso prima di essere soddisfatta ed estrarre il tomo con le fiabe di Andersen dalla borsa. Alcune, così come quelle dei Grimm, le conosceva già grazie ai suoi zii, ma la maggior parte le era sconosciuta, ed aveva trascorso un pomeriggio intero a leggerle, curiosa, ammirata e, a tratti, persino commossa. Aveva trovato le storie del danese più corpose e profonde di quelle dei fratelli tedeschi, e quella che l’aveva più coinvolta emotivamente era stata Il soldatino di stagno. In genere non amava granché i racconti dai temi romantici, trovando molto più interessanti gli inni alla determinazione e al coraggio individuale, ma c’era una rara dolcezza ed una malinconia indescrivibile nelle peripezie del soldatino e nelle forze del male e del bene che si erano prodigate per separarlo o riunirlo alla ballerina di cui era innamorato. Spesso aveva udito sospirare, da chi amava la lettura ben più di lei, quanto sarebbe stato bello se i propri personaggi preferiti avessero potuto prendere vita per poterci parlare, e si sentì sfacciatamente fortunata a poterlo fare.
    Alla fine, preso un lungo respiro per tentare di placare la propria mente ed il battito irregolare nel torace, sfogliò le pagine fino a raggiungere il punto in cui il soldato, dopo essere stato estratto dal pesce, tornava ad occupare il proprio posto sulla mensola vicino alla sua amata, e con precisione descrisse una spirale da destra verso sinistra, sfiorando in un ultimo tocco il disegno ad acquerello di fronte a lei.
    «Soldatino di stagno apparere» scandì con tenerezza, e in uno sbuffo rosso e grigio il soldatino senza una gamba, ritto e fiero nella sua uniforme, con il fucile sulla spalla e l’espressione seria e compunta, si materializzò di fronte a lei.
    Sam gli sorrise subito, le cornee un po’ lucide, e lo guardò saltellare incerto sul proprio piedistallo, guardandosi attorno con aria smarrita ma stoica.
    «Ossequi, signorina» salutò senza scomporsi.
    «Ossequi a Lei» replicò la O’Connor, tormentandosi le mani. «Non aver paura, non ti farò del male»
    «Non è per me che sono preoccupato… »
    mormorò lui, l’angoscia nei piccoli, coriacei occhi di stagno fissi sull’illustrazione della fanciulla. «Non la vedo, lei dov’è?»
    «È al sicuro, nel suo castello di carta»

    Un immediato sollievo animò il militare, seguito da un’improvvisa tristezza. «Ma allora perché non sono più nella mia scatola, con i miei compagni? Ricordo il vento, la barca e il pesce, e ricordo di averla rivista dopo essere tornato a casa, ma non ho idea di come sia finito qui»
    Sam si sentì in colpa come mai in vita sua, e in dovere di alleviare le sofferenze del soldatino meglio che poteva in quei pochi minuti concessi dall'incantesimo. La professoressa aveva detto che se fossero riusciti ad intrattenerli avrebbero potuto convincerli a rimanere un po’ di più, ma lei non aveva alcuna intenzione di provocare altre sofferenze al protagonista della fiaba.
    «Ti ho… chiamato io. Ti prometto che fra poco sarai di nuovo sulla tabacchiera, di fronte a lei, e potrai guardarla ballare»
    Le labbra dell’uomo di stagno di incurvarono all’insù così genuinamente che alla Tassorosso dolse il cuore, e lo guardò straziata mentre si sistemava la carabina e si reggeva incessantemente sull’unica gamba che gli era stata data, ligio al dovere.
    «Ebbene, cosa posso fare per Voi?»
    «Io… »
    . Cos’avrebbe voluto dirgli? Cosa poteva dirgli che potesse rendergli quei pochi giri di lancetta lontano dalla ballerina meno infernali? «In realtà volevo farti un regalo. Hai dovuto affrontare molti pericoli, e ti sarai sentito morire quando quei bambini ti hanno portato così lontano dalla tua casa, lontano da lei». Il soldatino taceva. «Non posso comprendere ciò che provi, ma dopo tutto ciò che hai passato ti meriti un po’ di felicità, prima-… »
    “… prima che finiate entrambi tra le fiamme” stava per aggiungere, ma non aveva intenzione di infliggergli altre sofferenze.
    Così, dopo aver recuperato il proprio noce e compiuto un altro avvitamento in senso antiorario, la Cercatrice toccò il disegno della ballerina e sussurrò «Ballerina apparere»
    Stavolta lo sbuffo fu bianco e rosa pallido, e in un turbinio di carta e lustrini anche la fanciulla comparve sul libro aperto, elegante e graziosa mentre stava in perfetto equilibrio sulla punta di un piede, reggendosi l’altra gamba con le braccia.
    «Cosa-…?» cominciò lei, strizzando le piccole ciglia per mettere a fuoco lo strano, enorme mondo circostante, prima di individuare la sagoma di stagno accanto a lei. Il soldatino fu talmente sopraffatto dalla comparsa della sua amata, a così pochi millimetri da lui, che ne fu sopraffatto: perse l’equilibrio, lasciando che la gamba cedesse come mai aveva fatto prima di allora, e si avvicinò venerante alla ballerina, il viso stravolto per la sorpresa e l’adorazione, usando il cane del fucile come appoggio per rimettersi in piedi. Le sue membra, però, tremavano troppo, e fu la ballerina stessa, abbandonata la propria caviglia, ad accovacciarsi di fronte all’omino. Non dissero niente, non c’era bisogno di dire niente. Rimasero in silenzio, lei stretta a lui, il visino di carta premuto contro la divisa di stagno, le braccia di lui attorno al delicato corpicino della fanciulla, e Sam non riuscì a dubitare neanche per un istante che quei due personaggi non avessero un cuore, un’anima. All’inizio si sforzò di non osservarli, di concedere loro un po’ di intimità, ma i due non davano segno d’esserne turbati, isolati nella propria bolla, in quel paradiso temporaneo e artificiale. Rimasero uniti per diverso tempo anche dopo lo scadere dei cinque minuti, e solo quando la Professoressa Sullivan riprese la parola si arrese alla realtà dei fatti: che il soldatino e la ballerina non appartenevano a quel mondo. Separarli sarebbe stato il gesto più crudele che avesse mai compiuto.
    «Mi dispiace… » la sua voce tremò quando richiamò all’attenzione i due personaggi, così malferma che gli ologrammi non poterono fare a meno di guardarla.
    «Cosa c’è, mia cara?» il tono della ballerina era dolce, triste mentre allungava una mano di carta impalpabile verso di lei per consolarla.
    «Sono mortificata, ma non posso farvi rimanere ancora qui. Dovete tornare a casa vostra, adesso». Il dolore nei loro sguardi fu una pugnalata al petto. «Però posso promettervi una cosa: nessuno vi separerà più d’ora in poi. Starete insieme per sempre»
    Dopo qualche altro istante di silenzio, la ballerina le sorrise, traboccante di gioia.
    «Come ti chiami, cara?»
    «Samantha» rispose Sam, incapace di soffermarsi sul fatto che, in genere, non usava mai il suo nome completo per presentarsi.
    «Ti ringrazio di cuore, Samantha»
    Tosca, non poteva piangere nel bel mezzo della lezione. Non poteva proprio.
    «Non potrò mai ripagare questo debito» aggiunse il soldatino, ed il suo tono era così sicuro, fermo e orgoglioso che la Caposcuola si sentì vibrare le ginocchia. Scosse la testa.
    «Non mi dovete niente. Andate in pace» li congedò, costringendosi ad Esiliarli prima di peggiorare la situazione.
    “Finite Incantatem”
    Pregò solo che nessuno si fosse accorto del pietoso stato in cui versava.

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    CAPODANNO CINESE A PECHINO
    BAB PG2

    SAMANTHA JENSEN O'CONNOR - Tassorosso
    17 Y.O. | VI anno | Headgirl, Seeker & Captain | voice ϟ ©Hoperus
    Il Ministero della Magia cinese era quanto di più diverso da quello britannico potesse immaginare. Un ampio salone dai colori caldi e le immense colonne di stampo imperiale aveva preso il posto dei lunghi corridoi piastrellati dal soffitto a botte, così legati all’architettura della metropolitana a cui era abituata, creando un effetto complessivo di luminosità e maestosità inaspettato. I finestroni, in particolare, le davano la netta sensazione di trovarsi a livello del suolo anziché sottoterra, e forse era davvero così.
    L’atrio però non era vuoto e, mentre finiva di spolverarsi gli indumenti per rimuovere la fuliggine in eccesso, notò una piccola delegazione abbigliata con indumenti formali in attesa, poco distanti da loro. Prima di fare una figuraccia ripulì il pavimento lustro dalla cenere che si era spazzolata di dosso con un Gratta e Netta non verbale, dopodiché seguì la docente e i compagni verso i maghi cinesi.
    Il portavoce si presentò come Wang Leehom, e a giudicare dal modo in cui aveva accennato all’identità dei collaboratori e alla professione della stessa Sullivan doveva essere il Ministro dell’UCMI.
    Sam salutò con un piccolo inchino di rispetto, lievemente esitante: aveva visitato Mahōtokoro qualche anno prima con il Preside Duvall, ma durante il suo corso avevano solo menzionato le istituzioni magiche cinesi. Ogni dettaglio per lei era nuovo, e non vedeva l’ora di scoprire il più possibile del Capodanno cinese e della città: sette ore di certo sarebbero state sufficienti per un lungo tour della capitale. In quella, le sue iridi dardeggiarono sul profilo di Dante, rievocando ciò che aveva detto a proposito di sua madre: non conosceva la sua professione, ma che fosse una fotografa o una giornalista, stavolta sarebbe stato il figlio a portarle qualche scatto-
    “Ah, no”
    Dato che la Sullivan aveva tenuto nascosta la loro destinazione, non aveva minimamente pensato a portarsi dietro la macchina fotografica, e adesso un po’ le dispiaceva. Chissà se in giro sarebbe riuscita a comprarne una usa e getta in qualche negozietto…
    Il Ministro Wang li congedò con la promessa di una sorpresa, dopodiché lasciò la parola alla docente: la donna fece loro le ultime raccomandazioni, esortandoli a riporre le bacchette, e porse loro delle buste rosse spiegando che contenevano una piccola somma con cui avrebbero potuto comprarsi da mangiare e fare acquisti di altro genere.
    «Oh- grazie, Professoressa» fece la Caposcuola, gli occhi sgranati per lo stupore. Non si aspettava niente del genere, e si sentì un po’ in colpa al pensiero di spendere i soldi di qualcun altro: di chi erano? Dell’insegnante, del Ministero britannico o di quello cinese? Non che potesse indagare, sarebbe stato scortese; così, forzandosi a reprimere quella sensazione, sorrise al tirocinante che l’aveva raggiunta e chinò di nuovo il capo in segno di rispetto. Si trattava di un uomo più giovane del Ministro, forse aveva giusto qualche anno più di Seth, e gli occhi e i capelli scuri rilucevano per quanto erano puliti e perfettamente acconciati.
    «Xiàwǔhǎo, wǒ jiào Zhào Tian» esordì, ricambiando l’inchino. «Buon pomeriggio, il mio nome è Zhào Tian, è un piacere conoscerti». La sua voce dal lieve accento cinese e il suo sorriso erano gentili, e agli angoli della bocca gli si erano create due fossette che la fecero avvampare inaspettatamente. Tosca, le pareva di essere tornata al Cairo con Medea! Pure con Nashat aveva avuto la medesima reazione! Evidentemente, rifletté con un muto sospiro, aveva davvero un debole per i ragazzi dai capelli scuri – anche se Tian aveva quasi il doppio dei suoi anni. Quel pensiero la aiutò a calmarsi, e ripensando a Nathan e all’ultima lettera che aveva ricevuto recuperò il proprio contegno, facendo passare l’imbarazzo per confusione e cercando di ripetere il saluto senza riuscirci.
    «Puoi semplicemente dire “Nĭ hăo”, non c’è problema» la incoraggiò.
    «Ni hao» ripeté lei, sbagliando di sicuro qualche tono. «Wo jiao Samantha». Sapeva che in Asia si soleva usare il cognome per conversare, ma non l’aveva mai fatto neppure in Giappone e le sarebbe parso piuttosto strano udirlo lì per la prima volta. «Il piacere è tutto mio»
    Era contenta che Tian si fosse presentato nella sua madrelingua: se avesse continuato in quel modo anche in seguito la gita si sarebbe rivelata un’ottima occasione per imparare qualche nuova parola, oltre che per conoscere meglio la tradizione del Capodanno cinese.
    Fatti che furono gli abbinamenti, Sam fece un cenno di arrivederci ai compagni e seguì Tian verso l’esterno, constatando che la sua supposizione era stata corretta: il Ministero si trovava all’interno di un edificio dall’aria qualunque, alloggiato in una via pullulante di persone che per la maggior parte indossava una mascherina.
    “Giusto, la pandemia” rammentò, per poi bloccarsi prima di impugnare il catalizzatore. Niente magia.
    «Tieni» fece prontamente lo stagista, porgendole una mascherina rossa dai decori dorati ed infilandosene una a sua volta.
    «Grazie!» trillò, sorpresa e sinceramente grata. «Ehm… Xiè xie» si corresse subito. Quello era forse l’unico termine che conosceva in mandarino. Lui si limitò a risponderle con un sorriso, lasciandole il tempo di ammirare il panorama. La folla era abbastanza fitta da averle impedito di notare, di primo acchito, le centinaia di bancarelle disseminate lungo la via, ciascuna delle quali vendeva amuleti, cibo, leoni e bufali di cartapesta fissati su corti stecchi di legno e altri oggetti che riusciva a malapena a identificare.
    Quando si fu più o meno abituata a quel marasma di stimoli, si rivolse alla sua guida e, trattenendo a malapena l’entusiasmo, gli chiese di portarla a fare un giro nei luoghi più belli della città, lasciando a lui la scelta dell’itinerario. Tian, dal canto suo, non pareva particolarmente sorpreso (in effetti era una richiesta piuttosto ovvia e doveva essersi preparato), e le fece subito segno di procedere verso destra.
    «La prima tappa non può che essere piazza Tian'anmen, non è molto distante» le spiegò, indicandole qua e là i nodi tradizionali di stoffa rossa appesi alle case, le lanterne spente nei pressi delle porte di ingresso ed i ceri scarlatti consumati fino a diventare mozziconi, tutti elementi tipici che si esponevano durante le due settimane del Capodanno.
    «Giusto, non si tratta di una sola notte» ricordò la studentessa, senza smettere di guardarsi intorno per assorbire il più possibile l’energia della città. «Ma quindi cosa si fa prima dell’effettivo giorno di Capodanno?»
    «Si sta con i parenti più stretti, si pulisce la casa e si fa visita ai morti, soprattutto»
    riassunse Tian. «Ci sono dei giorni specifici in cui stare con la famiglia e andare al cimitero, e anche il cibo va consumato in determinati momenti. Il quinto giorno, ad esempio, si mangiano i jiaozi, legati alla divinità del denaro e della ricchezza»
    «Sono i ravioli al vapore, giusto?»
    «Esatto. Invece il primo giorno, durante la cena della vigilia con la famiglia, si cucinano soprattutto carne e pesce»
    . Sam storse il naso, sospirando. Nel chiasso di metà pomeriggio era improbabile che Tian l’avesse sentita. «In realtà, molte delle pietanze che si consumano durante queste due settimane sono scelte in base a dei giochi di parole che hanno a che fare con gli auguri»
    Sam, sbalordita, scoppiò a ridere.
    «Davvero? Tipo?»
    «Il pesce stesso della vigilia è un omofono di “sovrabbondanza”» spiegò lui, indicandole di svoltare a sinistra senza interrompersi. «C’è un proverbio che recita “Nián nián yǒu yú”, ossia “ci possa essere sovrabbondanza quest'anno” – “” è “pesce” – e difatti viene sempre cucinato in eccesso. Gli avanzi vengono poi finiti nei giorni successivi. O ancora il luóhàn zhāi, la “delizia di Buddha”: è un’insalata mista a base di alghe fat choy, il cui nome suona molto come “prosperità”. In cantonese, per augurare buon anno, si dice proprio “Gong hei faat choi”»
    «E le tortine di riso?»
    domandò la Cercatrice, ammiccando ad una delle bancarelle che avevano appena superato.
    «Intendi di nian gao? Augurano anch’esse che sia un anno più prosperoso del precedente»
    In quella, Sam si accorse che la via si era ormai diradata a dismisura, e che meno di cento metri più avanti si apriva Piazza Tienanmen. Era così vasta che il suo sguardo non riusciva neppure a contenerla, e fu costretta a ruotare il capo da sinistra a destra per averne una panoramica completa. Oltre l’obelisco e il mare di teste, di musica, scoppi e vapori provenienti dalle padelle, svettava maestosa la Grande Sala del Popolo, con il muro solcato da bandiere purpuree in netto contrasto con il cielo grigio. Tuttavia, forse per ignoranza o forse per preconcetto, eccettuate le dimensioni, l’edificio la deluse un po’: si era aspettata qualcosa di più tradizionale, invece lo stile era più simile a quello dei parlamenti europei.
    Tian le chiese se volesse fermarsi a dare un’occhiata con più calma, ma lei scosse la testa e lo invitò a proseguire; tanto, disse, la piazza era talmente grande che mentre l’attraversavano avrebbe potuto guardare tutto senza fretta. L’assessore la scortò dunque verso destra, a nord, fino a superare il Portale del Cielo e dirigersi verso quello meridionale. La capitale, comprese la Tassorosso, era orientata in senso opposto rispetto ai punti cardinali, ma scelse di indagare più avanti, preferendo ampliare il discorso sulle tradizioni di Capodanno visto che, a detta del tirocinante, la meta successiva distava circa mezz’oretta a piedi. Apprese dunque che la pulizia della casa era legata al concetto di allontanamento della sfortuna, cosicché la buona sorte potesse varcare l’uscio senza intoppi.
    «Ah, un po’ come il falò del Capodanno celtico!» esclamò la Cercatrice. Tian era un po’ confuso.
    «Durante il Capodanno celtico, verso la fine di ottobre, si accende un grande falò in cui viene bruciato, concretamente o metaforicamente, ciò che di brutto è capitato durante l’anno precedente. Molti scrivono tre cose da eliminare e tre che si desiderano su dei foglietti, che vengono poi lanciati nel fuoco. È davvero un bel momento» raccontò con un pizzico di nostalgia. Aveva partecipato a quella celebrazione solo un paio di volte, quando era più piccola, e ricordava l’intenso odore e calore delle fiamme e l’atmosfera festosa degli adulti attorno a lei. Era un peccato che a Hogwarts non si organizzasse nulla del genere, limitandosi a celebrare Halloween.
    «Non è una festa nazionale però, vero?»
    «No, no»
    confermò lei.
    Ma le analogie con Halloween non si fermavano lì: c’erano infatti diverse leggende sull’origine del Capodanno cinese, e la più comune riguardava proprio lo scacciare un dio adirato dalla capitale.
    «Vedendo tutte le lanterne accese in giro per la città, il dio credette che qualcuno le avesse già dato fuoco e si ritirò»
    «Mossa furba!»
    commentò con un sorrisetto. «E le altre?»
    «La seconda è un po’ più romantica: si trattava di un inganno ordito da un consigliere imperiale per consentire ad una serva di uscire dal palazzo e rivedere la famiglia per una notte, una volta all’anno»
    «Wow»
    . Se fosse stato vero, il consigliere doveva essersi dato parecchio da fare per diffondere la voce in tutti i quartieri della capitale.
    «L’ultima non è una vera e propria leggenda, anzi, si presume che sia la vera origine della festa. Si tratterebbe di un rito dei monaci buddhisti, che accendevano delle lampade in contemplazione delle reliquie del Buddha il quindicesimo giorno del primo mese. Un imperatore avrebbe poi adottato questa usanza, ordinando di accendere delle lanterne nel palazzo imperiale e nei templi»
    «Tu a quale credi?»
    «Perché scegliere?»

    Sam rise di nuovo, prima che il fiato le si spezzasse per la meraviglia.
    «La città proibita!»
    All’orizzonte si stagliava, da parte a parte, l’antico palazzo imperiale, in cima ad una scalinata così lunga che le veniva il fiatone solo a pensare di scalarla, quasi non avesse trascorso sei anni a fare su e giù per il castello di Hogwarts.
    Tian ammiccò. «Purtroppo oggi è chiuso, ma è una bella vista anche dall’esterno»
    La O’Connor non poté far altro che annuire, le pupille che passavano ora sul tetto, ora sui portoni altissimi, figurandosi le parate di fine anno di cui aveva sentito parlare tingere la piazza di rosso e oro. La Sullivan aveva menzionato un evento finale quella sera, presumibilmente la festa delle lanterne, e sarebbe stato splendido poterla osservare da lì. Con quella speranza nel petto, restia a privarsi di quella vista spettacolare, temporeggiò un po’ prima di fare segno a Tian di proseguire verso la tappa seguente. Era trascorsa già un’ora da quando erano arrivati, e di certo c’erano ancora molte altre cose da ammirare.
    Il tirocinante la condusse al parco Beihai, dove numerose famiglie e gruppi di amici si erano radunati per celebrare e ovunque il rosso regnava sovrano, persino le barchette che solcavano il lago erano state tinte della medesima sfumatura. Si imbatterono anche in un manipolo di artisti che si stava esibendo in un’errante danza del leone, sostenendo, piegando ed arcuando il lungo costume semiaperto di un leone dal muso feroce, accompagnati dal ritmo battente di tamburi e cimbali.
    «Come mai è un leone e non un drago?» chiese curiosa, mentre si fermavano nei pressi di una bancarella per fare uno spuntino. Tian fu abbastanza gentile da chiedere all’anziana donna che lo gestiva degli involtini vegetariani e un paio di yuánxiāo. In quel momento erano seduti su una panchina, respirando l’atmosfera allegra del polmone verde della città.
    «Il leone ha la stessa funzione delle lanterne e delle pulizie, serve a scacciare ed esorcizzare gli spiriti maligni e favorire l’arrivo della fortuna» illustrò Tian, portandosi alla bocca un jiaozi. «Il drago invece è simbolo di celebrazione»
    «Oh, capisco»
    Si intrattennero nel parco per una mezz’oretta, finché i colori sfumati del tramonto non cominciarono ad incupirsi cedendo il posto alle tenebre del crepuscolo. Il buio tuttavia non sembrò colpire la città, rilucente delle miriadi di luci delle lanterne e dei palazzi che svettavano oltre le cime degli alberi.
    Quando si fece ora di proseguire, Sam notò diversi bambini in compagnia dei genitori, che si affollavano nei pressi di alcune lanterne particolarmente grosse sulle quali spiccavano vari ideogrammi.
    «Come mai si radunano tutti lì?»
    «Ah, stanno cercando di risolvere gli enigmi scritti sulle lanterne» fece Tian, gettando il sacchetto ormai vuoto degli snack che avevano consumato in un cestino già straripante. «È un’attività che risale alla dinastia Song, fra il 960 e il 1279, diffusa fin dall’epoca sia fra i ricchi che fra i poveri. Se si trova la parola celata dall’enigma si conquista un regalo»
    Più proseguivano, e più a Sam venivano in mente nuove informazioni da chiedere, stimolata da tutto ciò che la circondava. Scoprì così che fra le tradizioni di Capodanno si celebrava anche il Renri, il giorno della creazione, che per le settimane della festa lunare cadeva durante il settimo giorno - «Per i cristiani è il sesto, chissà perché c’è così poca differenza!» - e che durante la giornata ogni persona si considerava invecchiata di un anno.
    «Anche in Corea del Sud è così» intervenne Sam ad un certo punto. «La migliore amica di mia sorella è coreana, e non ho mai capito del tutto quanti anni abbia. Però in Cina si mantiene comunque l’età internazionale, no?»
    Tian confermò, spiegando che era più semplice così.
    Col passare dei minuti sempre più gente prese a sciamare nelle vie, alimentando l’aria gioiosa della festa. In Regno Unito era molto diverso, si festeggiava per lo più con amici e parenti in piccoli gruppi, e la gente si affollava solo nelle piazze più grandi e nei parchi, mentre a Pechino pareva che ogni vicolo fosse la sede di una piccola celebrazione privata, sgargiante di luce e macchie di rosso.
    Passando accanto all’ennesima bancarella, la Tassorosso udì un grido che aveva l’impressione di aver già sentito diverse volte nel corso del pomeriggio.
    «Cosa significa “sueesuee pinyan”?»
    Tian voltò lievemente il capo per nascondere la propria smorfia divertita. La sua pronuncia doveva essere stata davvero pessima.
    «Suìsuì píng'ān» la corresse lui, in perfetta dizione «significa “pace anno dopo anno”, e si urla in caso si rompa un oggetto per allontanare la malasorte scaturita dall’incidente. Però hai buon orecchio» concesse con un sorrisetto bonario.
    «Con tutto questo chiasso non è semplice capire bene le parole» si giustificò lei malgrado il complimento, per poi fermarsi e voltarsi con aria pensierosa verso il banchetto della vecchiarda. «Magari potremmo fare qualcosa per lei, potrei comprare uno dei suoi oggetti per aiutarla a scacciare la sfortuna»
    «Non funziona esattamente così, ma fai pure»
    ridacchiò Tian, seguendola verso il baracchino per farle da interprete. Non che Sam ne avesse davvero bisogno – salvo che per la cifra chiesta dalla donna: le fu sufficiente indicare e sillabare «Nà, qǐng nǐ1» per farsi consegnare in una bustina di carta rossa uno degli amuleti intrecciati di corda scarlatta. Stava anche pensando di acquistare una lanterna, ma mancavano ancora quattro ore al raduno e non voleva impicci durante la passeggiata. Ne avrebbe rimediata una più in là.
    Si allontanò dalla bancarella tra i ringraziamenti della vecchietta, infilandosi il sacchettino nella tasca interna della giacca, vicino alla bacchetta. Aveva fatto decisamente bene a coprirsi, perché malgrado il calore umano cominciava a fare davvero freddo.
    Ed ecco finalmente stagliarsi di fronte a loro il Tempio Lama, aperto eccezionalmente per il Capodanno. Era un complesso immenso, così vasto che non sarebbero mai riusciti a girarlo tutto senza fare tardi. Tian si premurò ugualmente di farle vedere i punti più importanti, inclusa la più grande statua di Buddha ricavata dal legno di sandalo del mondo, e negli angoli meno affollati riusciva persino a udire i canti dei monaci.
    «Deve trattarsi delle preghiere serali, probabilmente hanno cenato da poco» congetturò lui, conducendola più vicina all’edificio per ascoltare quella melodia profonda e riverberante. Non era difficile credere nell’esistenza di una divinità, nella presenza di forze esoteriche se si ascoltava una litania simile, una sequenza interminabile di sillabe pronunciate con la massima sicurezza e riverenza, senza mai smettere di estrarre il fiato dal proprio diaframma o incrinare la propria posizione.
    Quando lasciarono il tempio, un’ora dopo, Sam si sentiva rinvigorita come se si fosse immersa in una sorgente calda, e seguì Tian verso la fermata dell’autobus più vicina. Dato il traffico, la Cercatrice cominciò a temere che non sarebbero mai tornati in tempo per le undici, ma il tirocinante era fiducioso e la invitò ad approfittare del folle viaggio in pullman per riposare le gambe. In effetti camminavano al fresco da ore, e fermarsi per una mezz’oretta le sembrò un prospetto eccellente.
    Lungo il tragitto Sam provò a guardare fuori dal finestrino per ammirare la città di notte, ma le luci creavano troppi riflessi e in molti punti non riuscì a distinguere granché. Decise quindi di chiacchierare ancora un po’ con Tian, rendendosi conto del torpore che aveva cominciato ad avvolgerle le membra. Era stranissimo: razionalmente sapeva di essersi alzata solo qualche ora prima, eppure il cielo adombrato le dava la sensazione che fosse già ora di andare a dormire. Ecco cos’era il jet lag. Fortuna che al castello, dopo la lunga gita, non avrebbe avuto altre lezioni, o avrebbe rischiato di appisolarsi sul banco.
    «Senti Tian… » cominciò, raddrizzando la schiena. «Il Ministro Wang ha detto che stiamo entrando nell’anno del Bufalo, ma cosa significa?»
    «Nel calendario cinese gli anni sono contati seguendo un ciclo di 60 anni, chiamato “ganzhi”, e a ciascuno viene assegnato un nome composto da due parti: una radice celeste e un ramo terrestre. Non entrerò troppo nel merito delle dieci radici celesti, visto che il loro significato antico è stato quasi del tutto perso, ma posso dirti che i rami terrestri sono dodici»
    «Come gli animali dello zodiaco?»
    «Esatto. Il Bufalo rappresenta l’onestà e la pazienza, ma anche l’ambizione, e per questo è legato allo yin, la parte più sensibile del dao»
    . A quel punto elencò una serie di anni e le chiese se conoscesse qualcuno che fosse nato nel corso di uno di essi.
    «No, nessun Bue di mia conoscenza» replicò con un sorriso di scuse. «Io invece di che segno sono? Sono nata nel 2003»
    Tian rise. «Che coincidenza! Io nel 1991, siamo entrambi della Capra»
    «Non ci credo, pazzesco!»
    «Davvero!»
    concordò lui. «I nati sotto il segno della Capra – o della Pecora, se preferisci – tendono ad essere affettuosi, sensibili e timidi, più aperti solo con coloro che conoscono bene, e disprezzano il tradimento più di ogni altra cosa. Ma il loro vero dono è l’inventiva, e con una piccola spinta dall’esterno possono raggiungere risultati anche molto gratificanti»
    Sam ascoltava in silenzio. «Ti ci riconosci?»
    «Mah, non è che abbia mai creduto troppo in queste cose, ma ammetto che ci sono diversi punti in comune»
    «Sì, è abbastanza accurato»
    confermò Sam. «Ed è anche il Bue sotto l’influsso dello Yin, immagino»
    «Sì. Teoricamente, essendo questo l’anno di un animale a noi affine, dovrebbe esserci propizio, ma chissà»

    Quando arrivarono al Palazzo d’Estate, la Tassorosso esalò il fiato in una nuvoletta di fumo. Lì era tutto più tranquillo, e non avrebbe potuto contare sulla folla che li aveva circondati e riscaldati fino a quel momento. L’edificio era imponente, a pianta poligonale, e svettava al di sopra degli alberi entro i suoi confini, l’acqua del canale che scorreva attorno alla fortezza nera come la pece. Nel buio della periferia, risultava visibile solo grazie alle luci che erano state posizionate attorno al perimetro, e per un po’ rimasero in silenzio a godersi la malgama di sfumature blu, rosse e dorate create dalle pareti del Palazzo e dai riflettori piazzati dai babbani.
    «Ci voleva, rallentare un po’. Grazie»
    «Sì, il centro può essere soffocante a volte. È bello respirare un po’ ogni tanto»

    Sam annuì lentamente.
    «Senti, Tian… »
    «Sì?»
    «Non ti dispiace di non essere con i tuoi amici o la tua famiglia oggi?»

    Lui si strinse nelle spalle.
    «Non particolarmente. Ho trascorso ventotto capodanni con loro, per una volta non succederà niente. E poi mi sto divertendo, non preoccuparti»
    Sam gli sorrise dispiaciuta, chinando il capo. «Spero almeno che il Ministro Wang ti paghi bene per questo extra»
    Tian rise, ma non aggiunse altro, lasciandole il beneficio del dubbio.
    Ad una certa, il brontolio dello stomaco della Cercatrice ruppe la quiete del distretto di Haidian, inducendo le sue guance ad arrossire più del ciondolo che aveva comprato.
    «Direi che è ora di mangiare anche per noi. Su, torniamo in città. Se facciamo in tempo, forse riusciamo a vedere un’ultima cosa prima delle undici»
    «Che cosa?»
    indagò subito lei, curiosa.
    «Lo scoprirai»
    Sam gli trotterellò alle spalle senza insistere, e lo osservò sgomenta tirare fuori un cellulare dalla tasca della giacca.
    «Hai un telefono
    Lui annuì.
    «E funziona
    Tian assottigliò lo sguardo in un cenno di ammonimento.
    «Ah. Scusa».
    Seguì una breve e rapida conversazione in mandarino di cui la Tassorosso non riuscì a seguire una parola, ed in quella Tian la informò che aveva appena chiamato un taxi; tutti i pullman, infatti, avevano terminato le proprie corse.
    «Qui vicino ci sono anche i resti del Vecchio Palazzo d’Estate» le disse mentre aspettavano. «Ma sono nascosti in un giardino, perciò non riusciremmo a vederli dall’esterno»
    «Accidenti, che peccato!»
    «Già. Ha un’architettura molto strana, che ricorda i vecchi templi greci o gli anfiteatri»
    «Come sarebbe?»
    . Sam aggrottò le sopracciglia.
    «Aspetta, ti faccio vedere» fece lui, recuperando lo smartphone e mostrandole alcune foto da internet.
    «Caspita, hai ragione!». E di nuovo l’impulso di documentarsi in proposito fece capolino nel suo petto. Non avrebbe mai immaginato di trovare delle rovine di pietra bianca, così simili ai resti occidentali, dall’altro lato del mondo.
    Arrivato che fu il taxi, Tian diede all’autista l’indirizzo di destinazione e la vettura partì a tutta velocità verso sud-est. Sam avrebbe voluto avere una mappa per seguire gli spostamenti della macchina, invece dovette limitarsi ad un gioco di orientamento. Ciononostante, a differenza dell’autobus gremito di persone, i sedili erano silenziosi e confortevoli, e quasi senza accorgersene la Caposcuola scivolò in un sonnolento stato di dormiveglia, scaricando in quello stato di incoscienza la stanchezza accumulata nel corso della notte.
    Arrivarono a Dongcheng tre quarti d’ora dopo, e Tian la svegliò con un pizzico di imbarazzo, restio a sospingerla mentre chiamava più volte il suo nome. Sam si ridestò lentamente, confusa e stordita, ma impiegò ben poco tempo a rendersi conto di dove fosse e cosa stesse facendo. Subito, arrossendo fino alla punta dei capelli, si scusò con la sua guida e con l’autista, estraendo dal cappotto la busta rossa e porgendo al tassista l’importo dovuto per la corsa.
    «Scusami ancora, sono proprio crollata» biascicò, strizzando le palpebre per riadattare gli occhi alle forti luci della zona interna di Pechino.
    «Non preoccuparti, è normale- ah, eccoci qua» annunciò Tian allegro, aprendole la porta di un ristorante tradizionale e varcandone l’uscio dopo di lei. Oltre alle solite decorazioni scarlatte, la Caposcuola notò anche parecchi ninnoli raffiguranti carpe, piccoli lingotti d’oro e d’argento, e alcune composizioni floreali con narcisi, crisantemi, bambù, girasoli e altri esemplari sconosciuti.
    «Anche quelli hanno un significato preciso?» chiese al suo accompagnatore una volta che furono a tavola – Tian doveva aver prenotato in anticipo calibrando le tempistiche delle varie escursioni, perché ogni altra postazione era occupata da coppie, gruppi di amici e famiglie.
    «Sì. Il pruno asiatico» ah, ecco cos’era! «simboleggia la fortuna, il narciso la prosperità, il crisantemo la longevità» giusto, questo lo sapeva «mentre gli altri sono semplicemente di buon auspicio. Tu cosa prendi?»
    «Qualsiasi cosa, purché sia tipica di Capodanno e senza carne o pesce!»
    «E da bere?»

    Per rispondere, a differenza del primo quesito, Sam scorse il menù bilingue. «Un tè oolong»
    Tian riportò tutto alla cameriera, una ragazza avvenente dal rossetto rubicondo e nastri dello stesso colore nei capelli, e di lì a un quarto d’ora stavano già gustandosi gli antipasti. Mangiarono a sazietà, interrompendosi di tanto in tanto per non dare di stomaco – in Scozia erano circa le due di pomeriggio, e non ricordava di aver mai pranzato così tardi – e quando la Cercatrice cominciò a temere che sarebbe esplosa, arrivò l'ennesimo piatto di dolci di riso. No, decisamente non poteva rifiutarsi di assaggiarli un’ultima volta.
    Quando ebbero terminato e furono usciti dal ristorante, la sua busta rossa (oggetto tradizionale anch'esso, aveva appreso) era quasi completamente vuota, ma ne era valsa la pena.
    «E ora? Riusciamo a vedere quell’ultimo posto a cui mi hai accennato?»
    «Altroché!»

    Tian ci sapeva davvero fare con gli itinerari, non aveva problemi ad ammetterlo. Aveva incastrato ogni tappa alla perfezione, e anche adesso che stavano procedendo verso chissà dove non poté fare a meno di pensare che persino la posizione del ristorante fosse stata scelta appositamente per consentire loro di digerire, camminando dal locale all’ultima meta.
    La quantità di gente era ormai tale da rendere quasi impossibile passeggiare, perciò Tian le suggerì di avanare in fila indiana, procedendo tenendosi quanto più vicini possibile ai bordi della strada. Ad un certo punto la folla si diradò leggermente, al che la Tassorosso poté sollevare le iridi su un colossale edificio circolare, strutturato su tre livelli separati da tetti blu spioventi. Lungo la scalinata bianca che conduceva all’ingresso erano state fissate lanterne e scendevano leoni danzanti, suscitando l’estasi degli spettatori, mentre in uno dei lati della piazza un gruppo di esperti pirotecnici si assicurava che tutto fosse in ordine per lo spettacolo di fuochi d’artificio organizzato per quella notte. C’erano troppe cose stupende tutte insieme, a pochissimi passi l’una dall’altra, e si sentiva impazzire nel tentativo di scegliere su cosa soffermarsi. In quella, intercettò il vociare chiassoso di un venditore di lanterne, che approfittava dell’ultima ora per svendere le poche che gli erano rimaste, e Sam subito ne approfittò, cogliendo Tian di sorpresa acquistandone due, una per sé ed una per la sua guida.
    «Ma- non dovevi»
    Sì, Tian era proprio una timida Pecora.
    «È solo un piccolo modo per ringraziarti ancora per oggi, è stato bellissimo!»
    «È il mio lavoro-»
    si schermì lui; ma sorrideva, e Sam ricambiò mentre Tian le accendeva con un fiammifero che il venditore aveva dato loro insieme alla merce. La Cercatrice aveva notato che molte lanterne erano elettriche o di plastica, ma per sé voleva un cimelio meno commerciale.
    «Ehm… sarebbe un problema se ti chiedessi di farci una foto? Non ho pensato di portarmi dietro la macchina fotografica, ma visto che hai un telefono… »
    Tian fu sul punto di protestare per qualche secondo, ma alla fine si arrese ed acconsentì con un sospiro, guidandola nella calca fino a raggiungere uno spiraglio da cui avrebbe potuto includere il tempio, le gradinate con i leoni e parte della folla che li circondava. Poi estrasse il cellulare, aprì la fotocamera e lo tenne sospeso in alto con il braccio, invitandola a raggiungerlo prima che il flusso di gente cambiasse direzione.
    «Sān… èr… yī…2 »
    L’autoscatto partì, immortalando due volti accesi dal buonumore con le gote imporporate per il freddo, le mascherine temporaneamente abbassate sotto il mento e le lanterne accese sollevate nell'inquadratura.
    «Xiè xie» continuava a pigolare Sam, tagliando corto quando Tian la supplicò di smetterla e fornendogli la mail di Fany per farsela recapitare.
    «E adesso» proferì il tirocinante «sbrighiamoci, o faremo tardi all’appuntamento»


    1 Quello, per favore.
    2 Tre... due... uno...


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    MERCURIO

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    Ty Blue Sykes
    24 Y.O. | Auror Recruit | MTF | voice
    Astronomia era una materia abbastanza particolare da suscitare parecchio interesse sia fra gli universitari che nella comunità esterna alla LUM, e non mi sorpresi di vedere così tanti volti noti e non riempire l’aula come un fiume in piena. Di tanto in tanto incrociavo un viso familiare al quale rivolgevo un cenno di saluto, ma per il resto non mi sentivo granché incline a fare conversazione. Solo a Minori, in aggiunta all’accoglienza verbale, riservai un sorriso – tirato, ma sincero. Era una delle migliori reclute in Accademia, giovane ma sveglia, e con un eccellente senso di giustizia (tsk, io che parlavo di giustizia?), e non avevo tardato a prenderla inconsciamente sotto la mia ala protettiva dopo Denham – se avere un occhio di riguardo per lei potesse essere definito tale.

    […]

    Mentre ponderavo in quale portale entrare, richiamando alla memoria le peculiarità di ciascun pianeta del sistema solare, colsi involontariamente il commento sprezzante di un ragazzo, il tipo di considerazione per cui non avrei esitato a sfoderare la bacchetta e Schiantarlo prima che potesse aggiungere un’altra parola. Spaesata io, quando era lui il coglione incapace di fare un passetto di lato per avere la visuale libera?! Quando era lui che stava scherzando, come se trovare una connessione astrale fosse semplice quando fare una scampagnata?! Non mi soffermai neppure sulla sua opinione imbecille a proposito degli abiti che indossavo, e per un istante la furia che mi era divampata nel petto si attenuò, ma all’udire l’ennesimo apprezzamento sul mio aspetto, come se fosse tutto ciò che contasse, non ce la feci più e mi girai di scatto, il catalizzatore sguainato con aria minacciosa e un incendio nello sguardo color ghiaccio, la stessa rabbia omicida che aveva scacciato degli ibridi grossi il doppio di me al laboratorio, tanto da stupire persino il Dottore, le stesse brama e determinazione che mi avevano indotta a stringere un patto con uno dei maghi oscuri più potenti che esistessero, la minaccia letale emanata da un’Auror encomiata con una medaglia al merito per aver contribuito a concludere con successo una missione mortale.
    Se possedeva un pizzico di sale in zucca e un briciolo di istinto di sopravvivenza, avrebbe rabbrividito e si sarebbe tolto di torno con la coda fra le gambe prima che potessi fare anche solo un'altra mossa.

    [SPORT 1: 100m OSTACOLI]

    Ciò che più mi turbava, di certe lezioni, era la varietà di contesti in cui finivamo per ritrovarci, spesso talmente ambigui che non avevo neppure idea se si trattasse di luoghi e momenti reali, o se invece fossero solo dimensioni oniriche. Mi ero immaginata un mondo arcano oltre il portale, una distesa rocciosa come quella di Mercurio, magari popolata da creature mai viste sulla Terra, invece, dopo aver strizzato gli occhi per l’inaspettata luce solare, misi a fuoco un enorme stadio olimpico. Confusa e disorientata, scesi i gradini degli spalti fino a raggiungere la balaustra che si affacciava sui terreni di gioco, ed in quella una voce risuonò in tutto lo stadio, annunciando l’imminente competizione di tetrathlon magico.
    Quindi ero circondata da maghi? Bene. Un dettaglio in meno di cui preoccuparsi.
    Ciò che però catturò la mia attenzione fu la promessa riservata ai primi tre classificati, e in un istante scavalcai la ringhiera ed atterrai sul campo sottostante, non più di due metri e mezzo più sotto, attutendo l’atterraggio come mi avevano insegnato in Accademia. Il cuore iniziò a pulsarmi d’adrenalina ed eccitazione mentre mi dirigevo verso il banchetto dei giudici, i quali erano intenti a contare le iscrizioni per poter organizzare meglio le varie gare.
    «Inserite anche me» ordinai con fare sbrigativo e imperioso, mentre mi liberavo della giacca con un colpo di bacchetta e mi imprimevo un “11” sulla maglietta bianca che portavo al di sotto, infischiandomene se qualcuno avesse già preso quel numero. Sarebbero stati loro a doverlo cambiare. «Trinity Blue Sykes, donna». Uno dei due, sorpreso e scocciato, mi chiese di fargli lo spelling del mio cognome, dopodiché mi domandò se preferissi correre nei duecento piani o nei cento ad ostacoli.
    «Si può usare la magia?» mi informai, cominciando ad elaborare un piano in ambedue i casi e, al responso positivo, replicai: «Bene. Allora i 100 metri ad ostacoli»
    Con il catalizzatore sarebbe stato quasi un gioco da ragazzi. Ero veloce, rapida di mano, ed il fatto che mi trovassi in uno stadio olimpico non significava che i miei avversari fossero dei bravi atleti, anzi, forse si trattava solo di gente appassionata di sport e duelli che si stava semplicemente cimentando in una nuova esperienza. In ogni caso mi imposi di non sottovalutarli e, focalizzata sulla strategia che prendeva via via forma nella mia mente, raggiunsi i blocchi di partenza e mi posizionai. I pantaloni fecero un po’ di resistenza, così li trasfigurai alla svelta in un paio di shorts più pratici, la folla che cominciava a placarsi in attesa del fischio di partenza.
    E poi, il silenzio.
    Sciolsi i muscoli.
    Lo speaker si accostò di nuovo al microfono e, con voce solenne, proclamò: «Pronti… »
    Inspirai.
    «Partenza… »
    Espirai.
    «VIA!»
    Facendo pressione con il piede destro contro il blocco mi diedi una forte spinta in avanti e scattai, cominciando a sfrecciare incontro al primo ostacolo. Avrei approfittato di quei primi dieci metri per osservare i miei sette sfidanti e limare i dettagli del mio piano a seconda di come si sarebbero comportati.
    I corridori alla mia sinistra e alla mia destra – ero partita dal penultimo blocco nella parte più interna della pista – parevano aver adottato la mia stessa accortezza, ma c’era qualcuno, nella zona più esterna, che aveva deciso di non perdere tempo, scagliando un banale Impedimenta sullo sfidante accanto a lui. Per il momento non dovevo preoccuparmene.
    Ed ecco il primo ostacolo. Presi lo slancio, mi diedi la spinta sulle caviglie e saltai, allungando le gambe quanto più parallelamente possibile alla pista. In quel lasso di tempo, con un secondo di ritardo, la ragazza alla mia destra scagliò una fattura verso di me, mancando me e la donna alla mia sinistra per andare a colpire qualcuno nel mezzo. O forse erano quelle le sue intenzioni fin dall’inizio? Non che avesse granché importanza: era arrivato il mio momento. Niente trasfigurazioni o magia mentale, niente incanti complicati: solo formule di base, rapide ed efficienti. Puntai dunque ad uno degli ostacoli successivi di qualcuna delle avversarie sulla sinistra e in un istante lo mandai in fiamme con un “Incendio” ben piazzato. Non ci avrebbe messo molto a spegnerlo, ma intanto l’avevo rallentata. Le due donne nelle vicinanze si guardarono attorno, cercando di capire chi avesse appiccato il fuoco, ma io feci finta di niente, focalizzandomi sul saltare anche il secondo ostacolo. Tra le tre ragazze del blocco di destra ero la più veloce, ma non avevo intenzione di lasciarle libere di agire come volevano, specialmente la donna che per poco non mi aveva colpita. Senza temporeggiare oltre, ruotai il busto verso di lei, il polso di centottanta gradi in senso orario e diedi una stoccata con il mio pioppo bianco, ruggendo “Petrificus Totalus!”. La sfidante venne colta del tutto di sorpresa e si immobilizzò all’istante, piombando in avanti con gli arti congelati. Da quella posizione non avrebbe potuto neanche usare il controincantesimo. Nel mentre, altri tre volti si girarono nella mia direzione, realizzando che non ci sarei andata per il sottile, e sorrisi fra me e me. Perfetto.
    Per i successivi trenta metri circa la maggior parte dell’azione si concentrò su di me, ma la mira delle altre non era eccellente e riuscii a schivare ogni colpo, rispondendo agli attacchi solo in un altro caso, lanciando un Aguamenti sulle loro corsie per ridurre il coefficiente di adesione e indurle a scivolare. Un’altra delle avversarie ne approfittò per rallentare anche le sfidanti alla sua destra cosicché, a metà della gara, eravamo rimaste solo in tre – quattro, se contavamo una ragazza ormai troppo indietro per recuperare lo svantaggio.
    Saltai con agilità anche il sesto ostacolo e polverizzai il settimo con un Reducto, prendendomi la briga di superarlo con un altro balzo giusto per infastidire le mie contendenti, dopodiché riservai un Incarceramus ben piazzato alle gambe della donna alla mia sinistra, quella in quinta posizione, prima che la sua fattura potesse andare a segno.
    Ottavo ostacolo superato.
    Restavamo in due, un testa a testa con troppi metri a separarci che mi indusse a concentrarmi per un attimo sul mio ultimo ostacolo, opportunamente rimpicciolito con un Reducio d’emergenza. Subito, quasi mentre ero ancora a mezz’aria, tentai un Ventus per sbilanciare l’altra ragazza, ma la distanza era troppa e il turbine d’aria si dissipò prima di destabilizzarla. Non c’era più tempo per mirare, non mi restava che correre. Mancavano ormai solo quindici metri… dieci – ultimo ostacolo, quello rimpicciolito! – ora sette…. cinque…
    All’improvviso qualcosa mi bloccò le caviglie e caddi lunga distesa sulla pista, sputando aria e sangue per la botta, i polmoni schiacciati sul suolo – maledetta Pastoia! - mentre l’ultima corridrice sfrecciava verso il traguardo.
    “Oh, no, carina, non è ancora finita”
    Dalla mia prospettiva ribassata avevo una visuale libera sui piedi della ragazza e, prima che potesse concludere la sua prova, mi sospinsi verso l’alto, puntai la bacchetta verso la sua caviglia e descrissi un’ascensione.
    “LEVICORPUS!”
    La mia sfidante urlò per la sorpresa e, un istante dopo, si ritrovò appesa a testa in giù come un salame, a solo un metro e mezzo dalla linea di fine corsa, il catalizzatore perso sulla pista e un odio puro dipinto in volto. Ignorando le maledizioni che mi stava di certo lanciando con la mente, mi liberai dal Locomotor Mortis con un pacato Finite Incantatem e, dopo essermi spazzolata la divisa ed essermi asciugata il sangue dal labbro con l’orlo della maglia, passeggiai tranquillamente verso il traguardo, con un coro di acclamazioni ed insulti che risuonava nello stadio.

    [SPORT 2: LANCIO DEL DISCO]

    Mentre tornavo verso la zona riservata agli atleti per afferrare una bottiglietta d’acqua e darmi una rinfrescata, nello stadio risuonò la voce del commentatore, la quale annunciava che di lì a dieci minuti si sarebbe tenuta la seconda manche del tetrathlon. Le due discipline fra cui avrei potuto scegliere erano il lancio del disco e il lancio del martello, e per qualche momento imprecai tra me e me, cominciando a temere che, se anche le successive fossero state così assurde, avrei potuto avere qualche problema a classificarmi per raggiungere il nucleo di Mercurio. Alcuni atleti si stavano già allenando nell’apposita area, e rimasi ad osservarli per tentare di scegliere l’alternativa più semplice: il mio scopo non era dimostrare onore e valore, ma semplicemente qualificarmi, in qualsiasi modo possibile. A guardare le esecuzioni dei più esperti mi parevano un’attività più imbecille dell’altra – com’era possibile che girare su se stessi e lanciare un peso venisse considerato uno sport?! –, tuttavia il disco mi sembrò più aerodinamico e maneggevole del martello, perciò mi diressi verso la zona di lancio con un sonoro sbuffo di fastidio. Probabilmente era consentito l’uso della magia, ma non essendo una disciplina che richiedeva ai partecipanti di agire all’unisono, come la corsa, supposi che intervenire nelle prove altrui avrebbe comportato una squalifica. L’unica cosa che avrei potuto fare era provare ad incantare quel maledetto disco e sperare che funzionasse. Ciò che maggiormente mi preoccupava non era la fase di lancio, ma quella di rotazione, che mi avrebbe stordita abbastanza da rendermi ostico focalizzarmi sulle fatture.
    Nei pochi minuti che mi rimanevano mi esercitai a girare su me stessa mantenendo il baricentro e il disco quanto più stabili possibile, lanciando poi lo strumento al momento opportuno. I risultati furono scarsi, e solo in un caso riuscii a spedirlo nel cono che si estendeva di fronte a me, l’unica zona che mi avrebbe permesso di accumulare punti.
    Alla fine il giudice fischiò, ed avendo vinto i cento metri ad ostacoli fui la prima a dover cominciare. Poco male: via il dente, via il dolore. Ero pronta a umiliarmi.
    Prima di cominciare provai a rendere il disco leggermente più leggero con un pizzico di trasfigurazione, di modo che potesse fendere l’aria senza piombare subito nella sua parabola discendente, ma non abbastanza da perdere subito lo slancio e mettersi a fluttuare per fatti suoi.
    E sarebbe stato anche un buon piano, se non fosse che la mia assoluta inesperienza spedì il disco fuori dalle linee che delimitavano il mio obiettivo. Il primo tentativo era andato.
    Senza scoraggiarmi presi un profondo respiro, mi assicurai che la testa avesse smesso di girarmi e ritentai, stavolta utilizzando il Relascio in combinazione con l’Askolos: nel momento in cui il disco avrebbe lasciato la mia mano, la fattura di allontanamento si sarebbe attivata sparando l’oggetto quanto più lontano da me possibile.
    Funzionò, ma il Relascio fu troppo debole per spingere il disco oltre la linea di metà campo, e avevo bisogno di più punti se volevo salire sul podio.
    Per la mia ultima chance, dopo che i miei liquidi dell'equilibrio si furono ristabiliti, decisi di sostituire il Depulso al Relascio e mi rimisi in posizione, pronta a roteare come un’idiota per l’ultima volta.
    Stavolta il mio piano diede i risultati sperati, e fissai le iridi sul disco mentre questo sfrecciava verso la parte posteriore del cono, nell’ampia area dopo la linea di metà campo. La morsa allo stomaco che avvertivo si sciolse e sorrisi per il sollievo che fosse finita; più difficile fu aspettare che gli altri undici atleti terminassero le proprie esecuzioni, e quando sul tabellone apparve la lista dei qualificati, per poco non scagliai il disco lontano da me con tutta la furia che avevo.
    Quinta. Ero arrivata quinta. Certo, le discipline erano quattro e se mi fossi comportata bene nelle due restanti non avrei avuto niente di cui preoccuparmi, ma a quel punto ero pronta persino a giocare scorrettamente, più di quanto avessi fatto fino ad ora.

    [SPORT 3: SALTO IN LUNGO]

    Per il terzo sport non esitai un secondo ad optare per il salto in lungo: non avevo la più pallida idea di come funzionasse il salto in alto (o meglio, non avevo mai dovuto preoccuparmene, avendo la bacchetta sempre appresso per sopperire a certi problemi), e visto che non avevo alcuna intenzione di finire infilzata sull’asticella o sparata via per un movimento errato, mi iscrissi subito alla seconda categoria. Correre e saltare erano cose che sapevo fare, e da quando avevo sperimentato cosa significasse balzare qua e là per un panconiglio mi ero parecchio allenata per irrobustire le mie caviglie, attutire i colpi delle cadute e schivare all’ultimo. Mi sentivo decisamente meglio rispetto a prima, ma non volevo mettermi a correre in giro per non stancarmi, specie dati gli sprint necessari a spiccare il volo. Mi limitai a fare riscaldamento, correndo sul posto a ginocchia alte e facendo balzi da un punto fisso ad un altro dandomi sempre più slancio.
    Dato che la mia posizione in classifica era scesa, approfittai dei minuti che mi separavano dal mio turno per reidratarmi un altro po’ e per osservare i miei sfidanti. Stavolta non avevo intenzione di usare la magia: ero così abituata ad eseguire quei piccoli esercizi con le mie sole forze che un’interferenza esterna avrebbe potuto sconvolgere tutti i miei calcoli, e non potevo permetterlo. Avevo bisogno della medaglia di bronzo, almeno, per potermi riguadagnare un posto sul podio.
    Fortunatamente gli altri saltatori non impiegarono molto a terminare e, dopo che i giudici ebbero fatto tutte le valutazioni del caso, il mio nome risuonò nell’arena e mi apprestai a raggiungere la postazione di partenza. In quella, trasfigurai rapida i miei stivali in un paio di scarpe da ginnastica, ben più pratiche e performanti in quella situazione e, dopo aver inspirato ed espirato a fondo, piegai il corpo e scattai. Non dovevo tenermi troppo bassa, o avrei favorito l’aerodinamicità della corsa ostacolando il momento in cui avrei dovuto saltare, raddrizzando la schiena e le braccia in tutt’altra posizione. Riuscii a rimanere stabile per l’intero tragitto e, al momento giusto, spiccai il salto, slanciandomi in avanti con tutto il corpo per superare quanti più metri possibile sorvolando la sabbia. Quando atterrai per poco non scivolai sui granelli, sorpresa di quanto sdrucciolevole fosse quella vasca artificiale, ma riuscii a non crollare e mi rialzai, mentre i guardalinea prendevano nota della distanza percorsa. Era un ottimo salto, e udendoli confabulare un sorrisetto di compiacimento mi balenò sulle labbra.
    Per circa tre secondi.
    In quel momento, infatti, il giudice decretò il mio salto non valido, giacché, a quanto pareva, avevo superato con il piede la linea di limite di nemmeno un centimetro. Lì per lì fui sul punto di lanciargli una Orcovolante dal centro dello stadio, ma mi imposi di mantenere la calma e, scrutando in cagnesco chiunque osasse guardarmi o avvicinarmisi, tornai all’inizio della pista e ricominciai il rituale di preparazione. Scioglimento dei muscoli di gambe e spalle, molleggi, respiri profondi. In poco tempo ero pronta per il secondo salto, e stavolta ero così incazzata che mi mangiai qualche prezioso centimetro dalla linea prima di staccare le suole delle scarpe, sospingermi in avanti e atterrare nella fossa sabbiosa. Malgrado fossi partita un po’ in anticipo, avevo coperto una distanza maggiore, e la folla esultò roboante mentre ritornavo senza un’altra parola alla pista per l’ultimo tentativo.
    Stavolta mi concessi qualche istante in più per prepararmi, conscia che non avrei dovuto farmi sfuggire quell’opportunità. Se avessi sbagliato di nuovo avrei potuto dire addio a Mercurio, ma anche un buon salto avrebbe potuto non bastare. Così, con un pizzico di fastidio, lanciai un Muto Gommosus sulla parte finale della pista per poterla usare come trampolino e sfruttare una superficie molleggiante per sospingermi più lontano. Ignorai che lo stessi facendo per ripicca nei confronti dei giudici che mi avevano invalidato il primo salto e, quando mi sentii pronta, partii, sfrecciando sulla corsia e rallentando un istante per non mettere i piedi in fallo ed entrare sul trampolino dal punto sbagliato. Dopodiché saltai, ritrovandomi in aria con così tanta forza che non potei bloccare un urlo di sorpresa mentre braccia e gambe vorticavano ed iniziavo la discesa.
    Atterrai quasi alla fine della piscina di sabbia, tra i cori dispregiativi del pubblico, ma chi se ne fregava.
    Nel giro di un quarto d’ora avevano finito anche tutti gli altri, e trovai il mio nome accanto alla terza posizione, a pochissima distanza, malgrado il primo salto fosse stato annullato, dal secondo classificato. Potevo ancora farcela.

    [SPORT 4: EQUITAZIONE]

    Quando scoprii che per l’ultima gara avrei potuto scegliere fra equitazione e ciclismo, quasi scoppiai a ridere nella bottiglia d’acqua, iscrivendomi immediatamente alla prima. Ade, ero un Cavaliere Qualificato, quella sfida sarebbe stata un gioco da ragazzi, per non parlare del fatto che era molto più simile alla corsa ad ostacoli, e mettere i bastoni fra le ruote ai miei avversari era letteralmente ciò che facevo di professione.
    Alle scuderie usai ancora una volta il Vestis per procurarmi la divisa adatta, ma di usare il frustino non se ne parlava, ed occupai quei minuti per scegliere un destriero che facesse per me. Quasi tutti avevano già selezionato il proprio, ma non fui affatto scontenta di ritrovarmi ad accarezzare il grosso collo di un castrato dal pelo marrone scuro, che lo stalliere mi presentò come Brego. Era più scontroso degli altri, forse infelice di essere lì (al che mi domandai perché diavolo si trovasse in una stalla per competere con altri palomini), ma io placavo grifoni, un cavallo era una bazzecola. Persino lo stalliere, una volta addomesticatolo, mi guardò con un pizzico di timore, ma mi aiutò ugualmente a sellarlo. Per ricompensa, allungai a Brego un po’ di biada e lo montai, riservandogli ulteriori carezze e sussurrandogli parole di incoraggiamento mentre lo conducevo al trotto verso i blocchi di partenza. Eravamo in dieci e cercai di capire se, al di sotto dei caschetti da cavallerizzo, vi fosse qualche volto noto dalle precedenti gare, così da potermi regolare. In un primo momento classificai le altre nove donne come sconosciute, poi notai che una di esse aveva ricambiato il mio sguardo diffidente con una smorfia di sfida e la riconobbi: era la stessa avversaria che all’ultimo mi aveva affatturata durante i cento metri. Il desiderio di vincere mi incendiò le viscere più che mai.
    Con il casco in testa ogni suono mi sembrava più ovattato, tutto tranne il mio respiro e quello di Brego, le cui narici vibravano impazienti ed i cui zoccoli picchiettavano sul terreno, bramoso di uscire da quel cubicolo minuscolo.
    «Ce la faremo» gli giurai. «Vinceremo, Brego»
    Un conto alla rovescia seguito da uno sparo e le porticine si spalancarono, liberando cavalli e cavalieri.
    Io e Brego fummo fra i primi a lasciare la casa, spingendo fin da subito per ridurre il distacco con gli avversari; in un lampo avevamo già coperto i primi duecento metri, scoccando una Fattura Staccadita alla ragazza che dalla sesta posizione stava provando a superarmi da sinistra, e aumentando il divario dai cavallerizzi in ultima posizione.
    «Vai, Brego, vai!»
    Il cavallo, ancor più galvanizzato, accelerò, prima di venire rallentato da un Tarda Creatura della donna davanti a me non appena la affiancai. Irritata, borbottai il controincantesimo e le riservai un Alarte Ascendere particolarmente violento, disarcionandola e squalificandola all’istante. Brego, che non aveva capito perché diamine le sue zampe l’avessero tradito, scalpitava più che mai, sbuffando sonoramente e incalzando sulla pista.
    La cavalla che mi stava di fronte, una pezzata bianca, era sempre più vicina, e con una rapida stoccata del mio catalizzatore trasformai la testa del suo cavaliere in una zucca con un banale Melofors. Lo sconcerto fu tale per l’improvvisa visuale oscurata che perse l’equilibrio e cadde, cedendomi il suo posto.
    Avevo ancora solo due cavalli davanti a me, e il primo era proprio della stronza della corsa ad ostacoli. Mi liberai alla svelta della donna in seconda posizione con uno Slugulus Eructo, mirando a farla annaspare in cerca di aria e concentrazione per usare un controincantesimo non verbale, ma andò persino meglio del previsto quando le lumache, viscide, scivolarono sul collo del suo destriero, che si imbizzarrì e la fece cadere.
    Mancavano gli ultimi trecentocinquanta metri, e non avevo intenzione di cedere un solo metro all’altra sfidante. Incalzai Brego ancora di più, la bacchetta sollevata per affatturarla prima che potesse incastrarmi, ma contro ogni mia previsione lei colpì nello stesso attimo. Così, mentre il suo cavallo rallentava insonnolito, una manciata di lingue di fuoco si materializzò nel mezzo della mia corsia. Brego nitrì e si sollevò sulle zampe posteriori, spaventato, costringendomi ad aggrapparmi con forza al suo collo per non cadere, tirando le redini con una mano per allontanarci dall’ostacolo e spegnerlo con un soffio d’acqua. Ormai, però, era troppo tardi: la stronza aveva già tagliato il traguardo e, per quanto ci fossimo liberate degli altri e la ragazza in decima posizione si stesse avvicinando, non mi restava altro che trottare pacatamente oltre la linea di fine corsa con il cuore in tumulto.
    Avrei voluto smontare da Brego, prenderla per la collottola e riempirla di maledizioni, ma mi imposi di rimanere calma e dare la priorità al mio cavallo, coccolandolo e rassicurandolo per farlo chetare, visto che a quanto pare lo stalliere era un imbecille incompetente.

    [PREMIAZIONE]

    Rimasi con Brego finché potei, regalandogli altra biada e pettinandogli il pelo con una spazzola finché il podio non venne allestito ed i nomi dei tre qualificati annunciati. Il mio era (di pochissimo) il secondo e, con un ultimo buffetto al cavallo, mi cambiai d’abito e salii impaziente sul cubo con il numero 2, chinandomi in avanti a metà per consentire al giudice di appormi la medaglia d’argento attorno al collo. Ce l’avevo fatta, fanculo la vincitrice: avrebbero portato entrambe verso la fonte del Potere di Mercurio.
    Venimmo quindi condotte all’esterno dello stadio, trepidanti, e da lì in un giardino dalla vegetazione floreale rigogliosa e le ampie foglie, nel mezzo del quale stanziava una statua di Hermes. Quando mi resi conto di quale divinità greca si trattasse scoppiai a ridere, beccandomi delle occhiatacce da parte della medaglia dorata e della nostra guida, ma non potevo fare a meno di trovare piuttosto esilarante che il mio primo legame planetario sarebbe stato suggellato da un dio che portava il nome di uno dei miei migliori amici. O viceversa.
    Più mi accostavo alla scultura, più avvertivo il mio animo alleggerirsi, e quando fui a pochi passi dal marmo un’aura nera si sprigionò da esso, allungando le sue braccia fumose verso di me ed avviluppandomi completamente. La sensazione di levità lottò forsennata contro il terrore per l’aura nera, ma prima che potessi ritrarmi o fare alcunché, tutto diventò buio e mi ritrovai nuovamente nella Torre Planetaris, ansante.
    L’atrio era mezzo vuoto, e i pochi studenti che vi riapparivano si avviavano alla svelta verso la meta seguente. Quanto tempo avevo passato allo stadio? Sarei riuscita a legarmi anche ad altri corpi celesti prima della fine?
    Nervosa, feci un rapido controllo della mia Aura, verificando in ogni sua stilla e nel mio nucleo vitale che il rosso blush e l’aroma di chiodi di garofano non fossero stati contaminati (sembrava che il colore dell’alone di Mercurio non avesse niente a che vedere con l’alchimia, fortunatamente); dopodiché mi guardai attorno e, fatte le mie valutazioni, procedetti dalla parte opposta, varcando il portale che recava scritto “Nettuno”.
    CODE&GRAPHIC BY HIME

    NETTUNO

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    Ty Blue Sykes
    24 Y.O. | Auror Recruit | MTF | voice
    Il regno di Nettuno, o come diavolo si chiamava il posto in cui mi trovavo, era nettamente diverso dallo stadio di Mercurio: niente ambienti chiusi, niente folla impazzita e commentatori rumorosi, solo lo sciabordio delle onde su una trapunta indaco-azzurra che il sole aveva quasi finito di attraversare. E sarebbe stato anche uno spettacolo rilassante, se non fosse che dovevo trovare il nucleo del potere del pianeta e che un’inquietante moria di balene mi sbarrava la strada. Non avevo mai visto un cetaceo dal vivo, figurarsi trovarsene di fronte a decine, spiaggiati e sofferenti. Mi stavo già avvicinando alla pila di carcasse, stringendo il catalizzatore in una mano, quando notai una bambina in piedi di fronte ai pesci – o meglio, lei notò me – e, svelta, riposi la bacchetta prima che potesse vedermi. Non ero certa che si potesse usare la magia, in questo posto.
    «Ciao, chi sei? Non ti ho mai visto da queste parti. Io mi chiamo Mary!»
    «Uhm… ciao, Mary» borbottai in risposta con falsa disinvoltura mentre mi avvicinavo a lei. Da quella prospettiva il cumulo di balene pareva ancora più imponente ed agghiacciante, ma non potevo lasciarmi distrarre da quel problema faunistico, dovevo focalizzarmi sul mio obiettivo. Non sapevo quanto tempo mi restasse ancora, e non potevo perderne altro. D’altro canto la piccoletta avrebbe potuto sapere qualcosa su Nettuno, ma andare dritta al sodo non mi parve una buona idea. Meglio procedere per gradi.
    «Hai ragione, sono arrivata da poco, ma questo non era decisamente ciò che mi aspettavo di trovare. Cos’è successo qui?»
    Il visino di Mary – doveva avere all’incirca otto o nove anni – si corrucciò per la tristezza e la preoccupazione. «Ultimamente il livello di inquinamento del mare è aumentato moltissimo»
    “Non me ne parlare” pensai io, conscia di quanto fossero messi da schifo gli oceani sulla Terra. Perché era chiaro che non fossimo sulla Terra, ma in una stramba dimensione parallela di qualche tipo.
    «Tutti i giorni, quando ho tempo, vengo qui per cercare di aiutare gli animali che disorientati finiscono sulla spiaggia, ma sono troppi! Quindi si addormentano sulla sabbia e non si muovono più, devono essere molto stanchi!»
    Ok, questo non me l’aspettavo.
    «Si addormentano. Ero perplessa. E io che credevo che fossero morti.
    In effetti, ad un’occhiata più attenta, riuscivo a vederli respirare lentamente, con estrema fatica, e di nuovo l’istinto di sollevarli e rispedirli fra i flutti mi punzecchiò le meningi. Tuttavia, se le acque erano davvero così inquinate, sarebbe stato saggio immetterli nuovamente nel loro habitat? Per non parlare del loro strano letargo: che diavolo avevano sciolto in mare, ettolitri di sonnifero?!
    «Sì, devono essere parecchio stanchi… » borbottai pensierosa, accondiscendente. «In realtà sono qui per un altro motivo, ma questa mi sembra una faccenda seria e mi piacerebbe parlarne con qualcuno del posto, magari insieme riusciamo a venirne a capo. A proposito, sei qui da sola?»
    Mary si morse il labbro, lanciando un’occhiata al sole e alle ombre che andavano via via allungandosi sempre di più sulla spiaggia.
    «Oh, se cerchi mia madre la trovi al faro. Mio padre invece lavora su un'altra isola vicina, ma ci vogliono sei ore in barca per raggiungerla. Il faro si trova sul Promontorio del Tridente. Dovrei tornare a casa anch'io, dato che sta facendo buio»
    «Mmh… » finsi di rifletterci su. «Beh, mi sembra chiaro che qui stia succedendo qualcosa di strano, non mi sento tranquilla al pensiero di saperti da sola in giro. Se vuoi posso accompagnarti io al faro, che ne dici?»
    Pareva che Mary la pensasse allo stesso modo, perché annuì decisa e cominciò a farmi strada senza mai separarsi dal mio fianco; per un attimo ebbi quasi la sensazione di avere Lottie accanto a me – o una sua versione ben più pacata.
    «Lasciamo lì le balene, per ora, potrebbero soffrire ancora di più in acqua se prima non risolviamo il problema»
    La bimba si dichiarò d’accordo, un po’ sconsolata, e cominciò a parlottare della sua giornata e dei suoi vani tentativi di salvataggio, accennando di tanto in tanto ad alcuni dei luoghi di quella mezzaluna di sabbia. Ci mancavano solo le casette bianche di legno come a Garibaldi e avrei quasi creduto di essere in Oregon.
    «Quindi quello laggiù è il Promontorio del Tridente» ripetei. «Mentre questo lato…?»
    Mary era perplessa.
    «Questa è l'Isola del Tridente, ma lo dovresti sapere, giusto? Nessuno arriva sulla nostra isola senza conoscere la sua posizione... Sei qui per affari?»
    Dannazione.
    «Giusto, l'Isola del Tridente! Diciamo che mi ci hanno accompagnata, perciò non ho ben presente la geografia di questo posto. Ma sì, sono qui per affari»
    Impiegammo una mezz’ora abbondante prima di raggiungere il faro, e quando bussai alla porta il sole era già calato, lasciando la luna e le poche luci artificiali ad illuminare il paesaggio.
    «Buonasera, signora. Scusi il disturbo, ho incrociato Mary per caso sulla spiaggia e mi sono offerta di accompagnarla a casa, visto che stava già facendo buio»
    La donna, sui quarant’anni, era sorpresa e grata al contempo; poi un cipiglio le nacque sul volto.
    «Oh, non mi aspettavo di avere ospiti oggi! Mary, quante volte ti ho detto di avvisarmi se vuoi portare i tuoi amici qui? Avrei preparato più cibo! Anche se... non penso di averti mai visto da queste parti... Entra pure intanto!»
    «Sì, come dicevo a Mary sono qui per affari. Mi chiamo Tammy, molto piacere»
    Ade, doveva essere uno sputo di villaggio se tutti conoscevano le facce di tutti, da queste parti. In quella notai che la donna – Yvette, si presentò – si stava arrabattando per aggiungere un posto a tavola, al che provai a bloccarla per impedirglielo. Se avessi continuato di questo passo non avrei mai raggiunto il nucleo di Nettuno, dovevo solo chiedere un paio di informazioni e proseguire. Così, mentre le davo una mano ad apparecchiare, le proposi gli stessi quesiti che avevo rivolto alla figlia.
    «Ultimamente l'acqua dei nostri mari è contaminata, ma nessuno qui sa la vera ragione di questo fenomeno» mi confermò lei. «Di certo il turismo ha subito una grave batosta e anche l'umore degli abitanti dell'isola è nero». Davvero c’era del turismo, da queste parti? Quindi era un mondo funzionante, con una società fondata sul commercio come la mia? «Prima mio marito lavorava al ristorante di sushi dell'isola» persino il sushi! «ma il pesce non è più adatto a essere consumato crudo, quindi un mese fa ha chiuso i battenti. Insomma, è un problema che speriamo di risolvere al più presto!».
    Yvette era pensierosa più che intimorita, ma ancora non mi aveva detto nulla di utile. Avrei dovuto insistere.
    Prima che potessi farlo, però, Mary si lamentò - «La vita senza sushi non è più uguale, sigh» - strappandomi un altro sguardo sconcertato. Pure i bambini mangiavano il pesce crudo, adesso? Sì, ok, sapevo che in Giappone era comune persino fra i poppanti, ma i nomi delle due mi avevano fatto supporre di trovarmi in qualche luogo dalla cultura simile a quella americana, non certo orientale. Diamine, a tredici anni fingevo di amare il sushi perché tutti pensavano che fosse una pietanza chic, ma mi faceva schifo. Solo crescendo avevo cominciato ad apprezzarlo un po’ di più, ma era anche vero che non ero cresciuta in un paese di mare come l’Isola del Tridente.
    «Per cercare di aiutare negli ultimi tempi mi sono messo a indagare sulle possibili cause dell'inquinamento» proseguì la donna, e subito tornai a farmi più attenta. Forse poco prima stava solo riflettendo se fosse il caso di sbottonarsi oltre oppure no. «Sono ancora lontana dalla risposta definitiva, ma ci sono due opzioni che secondo me sono le più probabili. La più logica è che l'inquinamento è causata dalla fabbrica di scatolame che si trova nel versante occidentale dell'isola: è l'unico impianto industriale dell'isola. La cosa che non quadra è che è aperta da più di dieci anni e solo ora si è verificato il problema dell'inquinamento. Se solo avesse saputo quanto lento e implacabile era quel processo... «La seconda possibilità, più bizzarra, è che l'inquinamento sia causato da una Piovra Gigante che continuiamo ad avvistare al largo». Una piovra? Tesi le orecchie. «Questa piovra sembra aver preso dimora in relitto affondato, è sempre nervosa e, non ridere... secondo me soffre di un problema di meteorismo che lo porta a espellere nell'acqua grandi quantità di sostanze nocive... ». Non risi, ma solo perché ero troppo perplessa per la sua assurda congettura. Sapevo che il meteorismo dei bovini contribuiva vertiginosamente all’inquinamento del pianeta, ma si parla di una popolazione animale di centinaia di migliaia di capi di bestiame, non certo di un solo polpo troppo cresciuto! A meno che non fossero capitate cose ancora più assurde sull’Isola, quell’ipotesi era un’idiozia bella e buona. «Ogni tanto sentiamo dei rumori strani arrivare dal mare. La gente dice che sia il grido del dio Poseidone, ma per me è la Piovra che... cerca sollievo dal gonfiore di stomaco. Chissà... ». Se si fosse trattato sul serio di Poseidone i greci si sarebbero incazzati parecchio visto che, a quanto sembrava, viveva in un altro mondo e non al largo del Peloponneso, o oltre le Colonne d’Ercole.
    «Poseidone, eh? Intende la divinità nota anche come Nettuno?»
    Yvette confermò.
    «Venendo qui ho sentito una storia a riguardo, qualcosa su una sorta di “fonte del potere”… è vero o è una leggenda?» chiesi con scioltezza. Alla madre di Mary piaceva parlare, ma non volevo rischiare di fare il passo più lungo della gamba.
    «La fonte del potere?». Incrociai le dita. «Effettivamente c'è una fonte del potere! Solo che si è assopita a causa dell'inquinamento del mare... »
    Ah. Grandioso. Quasi otto miliardi di cervelli non riuscivano a mettersi d’accordo per evitare che la Terra diventasse invivibile per la specie umana, ma io dovevo risolvere da sola il problema dell’inquinamento degli oceani? Ma certo, cosa mai poteva andare storto?!
    «Gran brutta storia… » commentai amareggiata, sforzandomi di elaborare un piano per raggiungere il mio scopo. Se anche fosse stata colpa della fabbrica di scatolame, l’inquinamento doveva essere stato prodotto nell’arco di più di dieci anni! Come avrei fatto a revertire il processo? Un sospiro. Prima avrei cominciato, prima avrei finito. Sempre che fosse possibile.
    «Grazie mille, Yvette» esordii dopo qualche minuto di pesante silenzio. «Tu e tua figlia siete state così gentili ad ospitarmi che non voglio disturbarvi oltre; anzi, vorrei fare io qualcosa per aiutare voi. Magari, se riuscissi a scoprire cos’è successo, suo marito potrà riaprire il suo ristorante in futuro!»
    La donna era così sorpresa per la mia subitanea risoluzione che non ebbe modo di protestare, e nel giro di un minuto ero già fuori dal faro, diretta al versante ovest dell’isola con la bacchetta nella destra e un Lumos ad illuminarmi la via. Probabilmente era troppo tardi e non avrei trovato nessuno che potesse aprirmi o fornirmi ulteriori pareri, ma poco male: mi sarebbe bastato entrare di soppiatto e fare le dovute indagini.

    [LA FABBRICA]

    Gli unici suoni che sentivo, mentre avanzavo sulla strada asfaltata e spolverata di sabbia, erano lo sciabordio delle onde e lo stridio dei gabbiani, mentre il vento salmastro mi riempiva narici e polmoni. Ero arrivata a concludere che mi sarei servita della magia per scovare indizi ed, eventualmente, costruire qualcosa che potesse epurare i mari dell’Isola, poco importava se fosse un paesino di No-Maj. Al peggio avrei potuto spacciarmi per un’emissaria di Nettuno o chessò io.
    Finalmente, dopo tre quarti d’ora di camminata – Smaterializzarmi in quel luogo non mi pareva una grande idea, avrei rischiato di trovarmi Spaccata chissà dove – individuai una sagoma grossa e scura stagliarsi sulla costa, con un’insegna che recitava “Tonni e Sardine Tritone”. Era uno stabilimento casereccio, niente a che vedere con le fabbriche monumentali a cui ero abituata, ma non dovevo farmi ingannare dalle apparenze.
    Stavo per avvicinarmi alla porta quando una delle finestre si aprì di colpo e ne emerse il volto burbero e scorbutico di un uomo di mezza età, che prese a sbraitarmi contro con astio inaudito.
    «Cosa vuoi da me? Sei qui per molestarmi con le solite proteste sulla fabbrica? Non si può stare più tranquilli nemmeno di sera ora? Vattene subito!»
    “Abbiamo la coda di paglia, eh?”
    «Dio, che modi! Uno non può nemmeno farsi una passeggiata in santa pace?!» sbottai di rimando, incurante della bacchetta, prima di fare dietrofront e prepararmi a Dissimularmi per attaccarlo e proseguire con la mia missione. E l’avrei anche fatto, approfittando delle tenebre, se non fosse che le lancette ticchettavano e io ancora non avevo neppure la conferma che la colpa fosse davvero da imputare alla fabbrica. Sbuffai, scocciata. Ero una delle persone meno diplomatiche al mondo, ma se fossi riuscita a farlo cantare mi sarei risparmiata un sacco di grane, senza contare che non conoscevo il posto, e se avessi dovuto dirigermi altrove non avrei avuto altra gente a cui chiedere indicazioni.
    «A dire il vero… » ammisi, tornando a guardarlo in volto e ripercorrendo i pochi passi che avevo già fatto «ero venuta a dare un’occhiata. Non sono della zona, ma ho sentito delle strane voci a proposito della fabbrica e del crollo del commercio, per non parlare di quella moria di balene… i miei amici mi hanno sempre parlato benissimo di quest’Isola e dei prodotti di Tonni e Sardine Tritone, perciò speravo di potervi aiutare a dimostrare che voi non c’entrate niente»
    «E come faccio io a sapere che stai dicendo la verità, ragazzina?»
    Ragazzina? Chi è questo, Swan 2.0?!”
    «Non puoi. Ma da quanto ho capito la situazione sta diventando insostenibile anche per te, e se è vero che la gente ti dà il tormento notte e giorno potrei essere la tua unica possibilità di salvezza»
    L’uomo protestò istintivamente ancora per un po’, ma alla fine si arrese e mi impose di aspettare mentre scendeva ad aprirmi. Sollevata e soddisfatta, riposi la bacchetta nella tasca interna della giacca e salii nel portico, per poi varcare la soglia dello stabilimento quando mi venne aperta.
    «Su, entra» mi fece spiccio, richiudendosi alla svelta l’uscio alle spalle. L’interno era illuminato da una serie di lanterne ad olio e luci elettriche tremolanti, odorava intensamente di pesce e sale e trasudava umidità, ma era più pulito e ordinato di quanto mi aspettassi.
    «Da quando è iniziato l'inquinamento gli abitanti del villaggio si riuniscono quotidianamente davanti alla fabbrica per protestare» cominciò lui, affranto e arrabbiato, facendomi bruscamente cenno di sedermi – scossi la testa – prima di afferrare una bottiglia di scotch e versarsi due generose dita in un bicchiere. «Sostengono che sia la causa del problema, ma non può essere! Non ho mai apportato modifiche al processo di inscatolamento dei pesci, che è rimasto lo stesso da più di trent'anni... » Trenta? Non dieci come sosteneva Yvette? Forse anche loro venivano da fuori e non sapevano che la fabbrica fosse più vecchia di quanto pensassero? «Pensa che delle volte ho pure l'impressione che qualcuno si infiltri in casa mia di notte per darmele di santa ragione! Per fortuna i rumori terminano dopo un po', ma che ansia! E ora la mia attività è rovinata, mentre "Merluzzi e Alici Sirena", la fabbrica di scatolame dell'Isola delle Perle con cui competo da sempre, sta nuotando nell'oro»
    La mia postura, da più o meno rilassata che era, si irrigidì, mentre cominciavo a fare congetture. Com’è che lo stabilimento di fiducia dell’Isola del Tritone, dopo decenni di onesta attività, veniva improvvisamente accusata di distruggere la sua stessa fonte di guadagno favorendo, guardacaso, i suoi avversari commerciali di sempre? La risposta era così idiota che mi innervosii per l’imbecillità di quel tizio: sul serio non aveva pensato che fossero proprio quelli di Merluzzi e Alici Sirena i responsabili? Non serviva essere un detective per capirlo, benché fosse esattamente il mio lavoro.
    «Bella merda» commentai sincera alle lamentele del proprietario, che concordò scolandosi il suo alcolico.
    «Beh» deglutì «se vuoi indagare fai pure, sei libera di andare dove vuoi»
    «Grazie. Ti assicuro che gliela faremo pagare»
    In quella, senza che l’uomo potesse afferrare ciò che intendessi, cominciai la mia esplorazione. Avevo fatto bene a sforzarmi di avvicinarlo, o a quell’ora mi sarei trovata totalmente fuori strada. Con l’ausilio della bacchetta, lontano dalla vista del proprietario, mi misi a ispezionare ogni ambiente. L’atrio in cui mi trovavo fungeva da foyer, e poco distante c’era l’ufficio del capo, dov’erano contenuti i registri, appese certificazioni di qualità e altre foto dell’uomo che stringeva le mani a gente presumibilmente importante. Alcuni scatti erano persino in bianco e nero, ritraenti quelli che dovevano essere i suoi predecessori in affari.
    Anche il magazzino non rivelò nulla che non fosse fuori dall’ordinario: le latte di pesce erano disposte ordinatamente sugli scaffali per tipo e data di scadenza, ma non c’era nessun elemento insolito, né scatole mancanti, né impronte che non avessi già individuato nelle altre stanze. Pure il contenuto delle scatole era omogeneo, senza ingredienti aggiuntivi o nocivi, e lo stesso risultato ebbi dall’analisi della zona di confezionamento, dove file e file di lattine e bottiglie d’olio attendevano di essere prelevate per condire e sigillare al proprio interno i filetti di pescato.
    «Trovato qualcosa?» mi chiese l’uomo quando tornai nel foyer, in tono di sfida.
    «No» sospirai. «Non che volessi incriminarti, ma speravo di scovare qualcosa di utile, invece niente»
    «Beh, ti rimangono ancora due aree, fa’ pure con comodo». Il suo sarcasmo era palpabile e lo ignorai, dirigendomi verso la zona in cui i pesci venivano processati. Lì l’aroma era ancora più intenso malgrado le pareti e il soffitto fossero piuttosto alti – in effetti, troppo alti. Che fosse un Incanto Estensivo? -, e avevo bisogno di più luce per poter indagare al meglio, così scagliai una sfera luminosa a mezz’aria ed accesi un po’ di lanterne con una sferzata della bacchetta. Ad una prima occhiata i macchinari erano puliti e immobili, in attesa di venire attivati, ed anche i vari coltelli per i lavori più delicati se ne stavano, immacolati, riposti nei propri scomparti.
    “Possibile che non ci sia davvero nulla che non vada e che sia tutta colpa della Piovra?” esalai scettica, quando, con le mani immerse in un secchio di sardine, mi imbattei in una forma strana. Subito la estrassi e, lucidatala con un rapido Gratta e Netta, la portai sotto i raggi di luce per osservarla meglio: si trattava di una spilla con una sirena che riportava le iniziali MAS.
    “Finalmente”
    Merluzzi e Alici Sirena.
    Era stato un puro colpo di fortuna, e dovevo solo ringraziare la disattenzione del colpevole per essersi lasciato sfuggire quell’affare durante la sua opera di contaminazione; ma chi era poi l’imbecille che indossava l’emblema della propria azienda durante un’operazione di manomissione dei propri avversari?
    All’improvviso, prima ancora che potessi fare un passo per tornare dal proprietario di TST, qualcosa mi strinse le caviglie e crollai a terra come un pesce senza lisca.
    “Cazzo”
    Ero inciampata in qualcosa? Ma no, il terreno era sgombro, si era trattato di una fattura. Non ero l’unica strega sull’Isola, quindi. Per un attimo ipotizzai che fosse stato il capo dello stabilimento a intrappolarmi, che avesse piazzato lui quella spilla per dare la colpa a quelli dell’Isola delle Perle, ma la voce che risuonò furbesca nella stanza non gli apparteneva, e mi diedi dell’idiota. Non mi ero assicurata che non ci fosse nessuno, dando per scontato che a quell’ora la fabbrica fosse vuota e sottovalutando i sospetti del proprietario, un errore da principiante che mi era costato qualunque vantaggio potessi aver avuto.
    «Per fortuna che ti ho fermata. Ora ti cancellerò la memoria» “Ma col cazzo” «e... credo quella spilla sia caduta per sbaglio nel secchio». “Se l’avessi fatto apposta saresti sembrato ancora più stupido” pensai, guardandolo male e trattenendomi dall’alzare gli occhi al cielo. Un coglione, per l’appunto. L’avrei messo fuori gioco in due secondi. «Certo che dovrei stare più attento a non lasciare per sbaglio indizi in giro, altrimenti scoprirebbero che sono io, il proprietario di "Merluzzi e Alici Sirena"» addirittura il proprietario! Che grand’uomo, non aveva neppure mandato i suoi sottoposti a fare il lavoro sporco per lui! «che sto contaminando il processo produttivo di questa fabbrica per creare scarti inquinanti, ahah... ». Sul serio, questo tizio aveva visto troppi film. «Quell'idiota di Thomas non ha mai capito che ci fossi io dietro a tutto»
    E infatti tra tutti e due non sapevo chi fosse il più ingenuo. Mentre lui se ne stava sereno a pavoneggiarsi, compiaciuto, avevo avuto tutto il tempo per sciogliere il Locomotor Mortis con un Finite Incantatem non verbale e fingermi ancora intrappolata; dopodiché, non appena ebbe concluso la sua ultima frase, ben poco incline ad ascoltare il resto, mossi di scatto il polso, Disarmandolo prima e Pietrificandolo poi.
    «Una Pastoia, sul serio? È così che fermeresti qualcuno che potrebbe distruggere la tua attività in un secondo?» lo rimproverai delusa, senza smettere di tenere il mio pioppo puntato verso la sua faccia. «Siete a due passi dall’oceano, avresti potuto affogarmi e nessuno l’avrebbe mai scoperto». Espirai con forza, intrappolandolo ulteriormente con un Incarceramus ben piazzato.
    «Ehi, Thomas!» gridai, cosicché il proprietario di TST potesse sentirmi. «C’è qui un amico che vorrebbe parlarti!»

    [FONTE DEL POTERE]

    Mi aspettavo che a quel punto avrei lavorare con Thomas e le autorità locali per trovare il modo di depurare le acque della baia, invece l’uomo, chiamate le forze dell’ordine, mi congedò con una fiumana di scatolette di tonno e di ringraziamenti. Aveva parecchio di cui discutere con il sindaco e la polizia, e io non avevo un altro posto dove andare oltre al faro. Avevo risolto il mistero, sì, ma il mare era ancora contaminato, e soprattutto non avevo idea di dove fosse la fonte del potere di Nettuno: Yvette era l’unica che poteva aiutarmi a stendere un nuovo piano d’azione.
    Quando bussai alla sua porta era da poco passata la mezzanotte. La donna mi aprì in pigiama, con uno stoppino baluginante in mano, ma della piccola nemmeno l’ombra. Mary doveva essere già a letto.
    «Scusa se ti disturbo ancora, Yvette… volevo solo darti questi e dirti che tuo marito potrà riaprire la sua attività. Sono stata alla “Tonni e Sardine Tritone” e abbiamo scoperto il vero colpevole, di certo domattina lo leggerai su tutti i giornali»
    Lei, per tutta risposta, mi rivolse un sorriso enigmatico e mi confidò di esserne già a conoscenza. Corrugai le sopracciglia, sospettosa.
    «In che senso?»
    Yvette non rispose, limitandosi a dirmi che la fonte del potere si stava già risvegliando. Dopodiché uscì dalla torre e mi precedette verso il promontorio, indicandomi un punto in lontananza.
    «La fonte di potere si trova proprio in fondo al mare, nei pressi di un tempio sommerso. Se vai dritta per 150 metri, seguendo la posizione della luna, dovresti arrivare proprio sopra al tempio. A quel punto ti basterà immergerti per una quarantina di metri e sarai arrivata»
    Sì, ma lei come faceva a saperlo?! Era una sorta di Ninfa e aveva un legame particolare con l’acqua? E perché mi stavo facendo tutti questi problemi per gente che non sapevo neppure se fosse reale o meno?
    Infastidita da me stessa, lasciai che Yvette mi proteggesse la testa con un Testabolla; poi, scambiateci gli ultimi saluti e ringraziamenti, mi sedetti in cima alla scogliera con le gambe penzoloni, visualizzai l’operazione che volevo eseguire e, nel giro di una decina di secondi, mi trasfigurai la parte inferiore del corpo in una coda di Maride.
    Mi bastò una lieve spinta in avanti per precipitare verso l’oceano, protendendo le mani in avanti per fendere meglio l’acqua e immergermi più in profondità. I flutti non rendevano il mondo sottomarino granché visibile, così, per evitare il rischio di perdere la bacchetta a causa di un Lumos e di una corrente troppo forte, mi diedi la spinta tornando verso la superficie, ignorando la fastidiosa sensazione della maglia appiccicata alla pelle. Avrei nuotato tenendomi quanto più in alto possibile, per tenere d’occhio l’ambiente circostante e seguire la luna come mi aveva consigliato Yvette. La coda mi stava rendendo il processo molto più semplice, sospingendomi in avanti a gran velocità mentre tenevo le braccia ferme lungo il torso per acquisire maggiore aerodinamicità.
    Raggiunsi il tempio in cinque minuti scarsi, rituffandomi verso il fondale una volta coperti i centocinquanta metri. Si trattava di una struttura antica, vasta quanto una città, ed una vocina dentro di me mi suggerì che si trattava di Atlantide. Attraversai affascinata gli archi all'ingresso della struttura, fluttuando verso il centro del complesso monumentale dove sapevo trovarsi il tempio. Le colonne, diroccate ma imponenti, ne costituivano il perimetro, e dall’alto riuscivo a distinguere l’altare attraverso il soffitto inesistente; tuttavia non volevo che un’eventuale mancanza di rispetto mi precludesse l’accesso al potere, perciò feci pacata il giro ed entrai dal portale principale, attraversando la navata fino alla tavola di pietra. In quel momento un’ondata di idratazione e freschezza mi avvolse, una sensazione di benessere che neppure il migliore degli scrub poteva donare, e mi lasciai cullare dalle placide onde e dallo sbuffo di aura blu che aveva iniziato a circondare. Anziché dissiparsi tra i flutti, la nebbiolina azzurrastra mi penetrò nella pelle e, quando anche l’ultima stilla fu scomparsa, ogni cosa diventò nera e mi ritrovai di nuovo alla Torre Planetaris, con le gambe tremanti per l’improvvisa assenza della coda e gli abiti perfettamente asciutti.
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    GIOVE

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    Ty Blue Sykes
    24 Y.O. | Auror Recruit | MTF | voice
    Essere il padre degli dèi non dava il diritto a Zeus di pavoneggiarsi in maniera così teatrale e melodrammatica. Una volta varcato il portale giallo accanto a quello di Nettuno dal quale ero appena uscita, infatti, mi ritrovai in una vallata rocciosa e inospitale, al centro della quale sorgeva una torre aguzza e minacciosa sormontata da una sorta di nucleo che sprigionava elettricità tutto attorno. Sospirai, già stufa e impaziente di concludere quella prova, e feci per afferrare la bacchetta quando mi resi conto che, in mano, stringevo un fogliettino. Lessi il messaggio accigliata, lanciando occhiate diffidenti ai fulmini parecchi metri sopra di me, e un nuovo sbuffo mi fuoriuscì dalle labbra prima di incamminarmi verso l’imponente ingresso della costruzione. Chiunque avesse vergato quelle istruzioni non mi aveva detto niente che già non sapessi, poco importava la questione delle scalinate: ero già preparata ad affrontare qualsiasi cosa mi si fosse parata davanti e raggiungere la fonte del potere. Se mi avrebbe fulminata, una volta in cima, non potevo saperlo.
    Il pianterreno era deserto e silenzioso, e nemmeno l’ispezione con il catalizzatore mi fornì alcun dettaglio utile a capire se fosse il caso di procedere lungo i gradini posti alla mia sinistra o a quelli che si ergevano a destra. Parte di me mi suggerì che avrei sempre potuto tornare sui miei passi ed imboccare la scala opposta, ma avevo la sensazione che una volta stabilita la direzione da prendere non avrei più potuto farlo.
    Temporeggiare oltre non mi sarebbe servito a niente, così, circospetta e con i sensi in allerta, cominciai a salire la gradinata di destra senza sapere se mi avrebbe condotta al piano superiore o a qualche livello più in alto.

    [2° PIANO – PROVA DEL PATTINAGGIO]

    Ero stata sfortunata: un pacchiano cartello mi diede il benvenuto sul secondo pianerottolo, annunciandomi che avrei dovuto affrontare un pericolosissimo pavimento ghiacciato.
    “Sul serio? È tutto qui?”
    Il nervosismo era tale che faticai a trovare la concentrazione per potermi trasformare, focalizzandomi dapprima sulle gambe, poi sul torso e le braccia ed infine sul capo, riducendo e strizzando le mie dimensioni, i miei arti ed apparati in una forma ben più piccola e veloce che non doveva sottostare alla legge della gravità. Assunta la forma di colibrì, impiegai meno di trenta secondi ad attraversare il salone finché, dalla parte opposta, non mi si aprì un nuovo bivio. Provai a sfruttare i sensi di volatile per trarre qualche istintiva intuizione su dove fosse più sicuro andare, ma la logica si insinuò nelle mie sinapsi, imponendomi di procedere verso sinistra. Se mi fossi tenuta solo sul lato destro forse avrei allungato il percorso, oppure mi sarei ritrovata in un’ala troppo distante dal nucleo, che invece svettava in cima alla torre in posizione centrale.

    [6° PIANO – PROVA DEL CECCHINO]

    Ade, mi sembrava di essere tornata nella palestra dell’Accademia. Se già la pista di pattinaggio mi aveva lasciata interdetta, la presenza dei cinque bersagli mobili quasi mi fece cascare le braccia per l’incredulità. Pareva che Zeus volesse che qualcuno si appropriasse del suo nucleo! Sarebbe stato più comodo scrivere all’ingresso: “Venghino, signori, venghino! Potere planetario per tutti!”
    Controvoglia riassunsi le mie sembianze umane e mi massaggiai le tempie per non dare di matto, provando nostalgia per l’Isola del Tridente e le sue balene spiaggiate. Almeno lì il panorama era decente.
    Svelta, senza perdere altro tempo, visualizzai una cascata di frecce e sbottai un agguerrito «Sagittatum: se ne materializzarono cinque, e due di esse colpirono i bersagli in pochi istanti, una quasi nel mezzo e l’altra nella parte più esterna, giusto un attimo prima di spostarsi. Scatenai un’altra ondata infilzandone un terzo, prima di rimboccarmi le maniche e puntare dritta all’obiettivo. Il quarto bersaglio venne polverizzato con un Reducto, ma il quinto continuava ad evitare i miei attacchi, quasi avesse compreso che non ci sarei andata per il sottile. Peccato che non avessi alcuna voglia di giocare.
    «MONSTRUM ringhiai, e nel giro di pochi attimi uno sciame di mostriciattoli volanti si fiondò sul tabellone fuggiasco, spaccandolo in mille pezzi.
    A pensarci bene, forse avrei potuto attraversare il salone senza nemmeno prendermi il disturbo di affrontare la prova, ma c’era l’alta probabilità che la via mi sarebbe stata bloccata da un campo di forza o roba simile. Esalai una soffiata irritata: avevo sempre detestato i videogiochi.
    In fondo alla stanza applicai nuovamente la strategia stabilita in precedenza e, proseguendo a zig-zag, scalai la gradinata di destra.

    [7° PIANO – PROVA DELLA SCHIVATA]

    Era uno scherzo. Doveva esserlo. Cos’era Zeus, un trickster?! Di fronte alle bucce di banana scoppiai a ridere per l’isteria, incapace di prendere quella sfida seriamente. Mi trovavo nella torre da meno di dieci minuti ed ero già quasi a metà, davvero il tenore delle prove sarebbe stato quello fino in cima? Non che mi stessi lamentando, prima avessi raggiunto la fonte e meglio era, ma così non c’era neppure gusto.
    Delusa, evocai un ombrello, me lo aprii sulla testa e presi ad avanzare verso la parte opposta della sala, camminando circospetta per non scivolare e rimproverandomi per non aver indossato i miei stivali induriti, che mi assicuravano una migliore aderenza sul terreno. Poco male, mi sarei fatta una passeggiata sotto una pioggia di banane, ordinaria amministrazione.
    Una volta in fondo, imboccai senza esitare la scala di sinistra.

    [10° PIANO – PROVA DEL CALDO]

    Mi ritrovai tre livelli più su, inondata da un calore inaudito, talmente elevato che cominciai a sudare prima ancora di mettere il piede sull’ultimo gradino. Ade, dovevano esserci almeno cinquanta gradi, lì dentro! Caldo a parte, però, non vedevo avversari all’orizzonte. Che ci fosse qualche trappola nelle pareti o sul pavimento? Il catalizzatore, dopo la mia rapida ispezione, mi indicò l’assenza totale di qualsivoglia tranello, al che mi arresi, allacciandomi la giacca in vita, evocandomi un bicchiere di vetro e versandoci dentro dell’acqua con Aguamenti per rimanere idratata mentre attraversavo la stanza e raggiungevo l’altra estremità.
    Sembrava però che avessi perso qualche passaggio, perché l’accesso alle due scalinate mi era ancora precluso. Senza alcun nemico, senza meccanismi a innesco, che diavolo avrei dovuto fare, limitarmi a morire di caldo-?
    “Ah”
    Forse sì.
    Assurdo.
    Risi di nuovo, appoggiandomi alla parete del decimo piano ed edificando una barriera temperante attorno a me, settata sui venti gradi circa. A quel punto mi rivestii, continuando a sorseggiare dal mio bicchiere mentre mi prendevo una breve pausa da quella scalata insulsa. Avevo ipotizzato che più fossi stata vicina al nucleo, più le sfide sarebbero diventate complesse, ma era evidente che mi fossi sbagliata.
    Dopo soli due minuti il varco verso le scale si aprì ed avanzai verso destra.

    [14° PIANO – PROVA DELL’AGO NEL PAGLIAIO]

    Per quanto sciocca, stavolta la prova era un minimo stimolante. Con calma regolarizzai il respiro, lievemente accelerato dopo quattro rampe di scale e lo sbalzo termico, per poi castare vari Revelio per scovare in quale punto della stanza si trovasse la moneta invisibile. Se ne avessi avuto ben presente l’aspetto mi sarebbe bastato un banale Accio, ma non ne conoscevo le fattezze e l’Incantesimo di Appello non avrebbe funzionato.
    Nel giro di poche decine di secondi avevo già trovato la moneta e, intascatala, mi domandai perché mai non avessero davvero riempito il salone di paglia. Quello sì che avrebbe reso la sfida più emozionante.
    Riflettendo sugli svariati modi in cui avrei potuto rinnovare la sicurezza di quella stupida torre, imboccai la gradinata di sinistra.

    [16° PIANO – PROVA DELLA LAVA]

    Per la seconda volta da quando ero entrata nell’edificio, ebbi la sensazione di essere tornata in Accademia: di fronte a me si estendeva un percorso ad ostacoli, galleggianti o sospesi sopra un pavimento colmo di quella che aveva la pretesa di essere lava. Ora, avrei potuto mettermi a saltellare come un cerbiatto e aggrapparmi alle sporgenze come uno scalatore, ma in tutta onestà non ne avevo assolutamente voglia – e ancor meno ne avevo di bagnarmi o bruciarmi i vestiti.
    Così optati per ricorrere di nuovo all’animagia: in pochi attimi ero tornata ad essere un colibrì, la cui forma sfruttai per sorvolare il percorso e prendermi la briga, di tanto in tanto, di toccare alcune piattaforme (chissà che farsi spuntare un paio d’ali non fosse considerato barare).
    A differenza delle mie strategie precedenti, mantenni le sembianze di volatile anche mentre fluttuavo lungo la scalinata di destra, magari mi sarebbe servito anche più avanti.

    [19° PIANO – PROVA DEI LASER]

    Scorgere il numero diciannove sul pianerottolo fu quasi una benedizione, e pigolai quando realizzai che anche per quella penultima – perché supponevo sarebbe stata la penultima – sfida il colibrì mi sarebbe tornato utile. Niente contorsioni inutili, niente slogamenti o affanni: avrei evitato le scie verdastre con relativa semplicità.
    Con baldanza volai verso l’altro capo del salone, confidando che le linee impalpabili sarebbero rimaste fisse, ma all’improvviso una di esse si mosse e mi attraversò, rispedendomi all’inizio del percorso.
    Oh, finalmente un briciolo di complessità!
    Impiegai una decina di minuti a completare la prova, venendo sbattuta al punto di partenza una mezza dozzina di volte prima di memorizzare lo schema e la postazione dei laser semoventi.
    Quando raggiunsi finalmente l’altro lato avvertii il corpo pervaso da un’ondata di soddisfazione: forse questa era stata l’unica vera sfida fino ad ora, e considerando che ero quasi in cima mi era andata piuttosto bene. Ottenere una ricompensa preziosa come la fonte del potere di Giove non mi avrebbe trasmesso alcunché se non avessi dovuto lottare per impossessarmene.
    Poi, per l’ultima volta, risalii la gradinata a sinistra.

    [20° PIANO – PROVA DELLA COSCIENZA]

    “No, non di nuovo” esalai, frustrata. “Basta
    Adesso sì che pareva tutta una presa per il culo: i diciannove piani di fesserie avevano come scopo quello di far abbassare la guardia agli esploratori? Beh, ci erano riusciti.
    Esasperata mi ritrasformai, massaggiandomi le spalle e rigirandomi il catalizzatore fra le dita. Non era la prima volta che mi ritrovavo a lottare contro un mio doppio, prima negli scenari dell’inconscio quando avevo studiato alchimia a Ilvermorny, e poi durante la missione al Tempio degli Eroi con la Stevens, ma nel primo caso era bastata qualche chiacchiera e nel secondo ero stata in compagnia di Cesare, Swan e Riccardo Cuor di Leone. Ora invece avevo l’impressione che neppure evocare il mio Animus sarebbe bastato, ed il sorrisetto sfrontato del mio clone, che mi aveva raggiunta uscendo dallo specchio, confermò i miei timori. L’ombra del Tempio era stata incapace di produrre un Prode, ma questa non era un’impronta sbiadita e oscura, bensì incarnava ogni mia capacità e conoscenza.
    Il bello era che sapevo persino cosa fare per batterla – o battermi -, ma ero certa che l’altra me mi avrebbe ostacolata con ogni grammo di forza possibile. Se avessi provato a superare i miei limiti l’avrebbe fatto anche lei, e solo un fattore esterno che avrebbe potuto decidere le sorti dello scontro, puntando allo specchio stesso o alla statua dalle fattezze di Zeus che se ne stava appollaiata in una nicchia lì accanto.
    Scattammo nello stesso istante, l’una in attacco e l’altra in difesa, in un cerchio che non riuscivo a spezzare. Era brava – ero brava – e non aveva intenzione di cedere terreno nemmeno per un istante, cosa che per qualche secondo mi investì d’orgoglio e cinico divertimento all’idea di quanto insopportabile dovessi sembrare ai miei avversari. C’erano brevi istanti durante i quali riuscivo a ritagliarmi un piccolo margine, evocando ed aizzando creature contro lo specchio e la statua, ma non erano abbastanza violente, e l’altra me se ne liberava in fretta, costringendomi a indietreggiare prima di colpire di nuovo.
    Avevo ormai perso il conto di quanto tempo fosse passato da quando avevamo ingaggiato battaglia e, per quanto fossimo entrambe spossate, nessuna delle due accennava ad arrendersi. Ogni incantesimo veniva deflesso, ogni inganno svelato, persino la manipolazione della mente aveva fallito.
    Fu solo quando mi ritrovai ansante e grondante di sudore, con la testa che girava e le orecchie che fischiavano che mi fermai, le mani sulle ginocchia mentre prendevo profondi respiri. Forse ciò che avrei dovuto fare, ciò che non si sarebbe mai aspettata, era dargliela vinta, qualcosa che non mi apparteneva, di alieno, che cozzava con la mia personalità ed il mio modo di agire, e più passavano i secondi, più ne ero convinta, al punto che il mio clone mi squadrò con sospetto e sconcerto, insicuro su cos’avrebbe dovuto fare in quel caso. Darmi il colpo di grazia? Probabile. Oppure…
    «Che diavolo stai facendo?! Ti arrendi così?!» berciò affannosa, trascinandosi verso di me con odio.
    «Sì» risposi, inspirando ed espirando profondamente. «Non possiamo andare avanti così in eterno, e se nessuna delle due può vincere, allora cambierò le carte in tavola»
    «Ti ha dato di volta il cervello?! Non raggiungerai mai la fonte del potere se non mi sconfiggi!»
    «Troverò un altro modo»
    «Sei sorda?! Ti ho appena detto che se ti sconfiggo per te è finita!»
    «Allora vorrà dire che ricomincerò daccapo»

    Quello poteva comprenderlo, era qualcosa che avrebbe fatto anche lei.
    «Non cambierà niente, quando tornerai di fronte allo specchio ci ritroveremo nelle stesse condizioni di ora»
    «Forse»

    Stava temporeggiando. Potevo quasi percepire il suo desiderio di finirmi e la diffidenza nel suo petto, la brama di tentare qualche altra mossa ed il fastidio per una vittoria così amara. Alla fine, però, optò per darmi il colpo di grazia. Era esausta anche lei, e se non avesse preso l’iniziativa non si sarebbe smosso niente. Iniziò ad incedere verso di me, il pioppo bianco stretto nella destra mentre mi raggiungeva per finirmi ed io la guardavo con aria arrendevole e sincera, troppo stanca per mentire, la bacchetta per terra, lontana da me. Mi scrutò con disprezzo, sfarfallando, e sollevò il suo catalizzatore per Schiantarmi quando, all’ultimo istante, mi allungai su di lei, atterrandola ed impossessandomi della sua bacchetta. In un attimo, prima che potesse ribaltarmi, scagliai due poderosi Bombarda Maxima allo specchio e alla statua e, in un ringhio di furia, avvertii che la forma bloccata sotto le mie rotule era svanita, lasciandomi distrutta sul pavimento fra cocci di pietra e di vetro.

    [FONTE DEL POTERE]

    Mi concessi parecchi minuti di riposo prima di rialzarmi, consentendo ai miei muscoli indolenziti di sciogliersi, alle tempie di smettere di pulsare e al respiro di regolarizzarsi, mentre scrutavo il soffitto a crociera del ventesimo piano un po’ confusa. Avevo sconfitto il mio doppio, eppure non c’erano più scale da percorrere o porte da varcare: come avrei dovuto raggiungere il tetto della torre?
    “Una cosa per volta” mi imposi, placandomi. “Prima rimettiti in piedi”
    Con un indolente sforzo mi issai sui gomiti e mi sospinsi verso l’alto, zoppicando fino alla mia dodici pollici per raccoglierla dal mare di frammenti che costellava il suolo. Dopodiché aguzzai la vista e, costringendomi ad ignorare il torpore, mi avvicinai ai resti della statua e dello specchio. La cornice e la superficie riflettente erano stati disintegrati, lasciando un grosso spazio vuoto sul pianerottolo, ma della statua era rimasta ancora la base. Alle sue spalle, tuttavia, scorsi uno sprazzo luminoso, ed un lieve alito di aria fresca mi soffiò tra i capelli.
    “Aha!”
    Arrancante, ripulii quella zona liberandomi delle ultime pietre ed allargai il varco nascosto: si trattava di un’arcata stretta, oltre la quale una serie di gradini si inerpicava verso l’esterno. La imboccai immediatamente, mettendo un piede dopo l’altro e respirando a pieni polmoni il vento frizzantino dell’alta quota.
    Finalmente raggiunsi la cima: una superficie piana, delimitata da quattro grossi spuntoni orientati verso – ipotizzai – i punti cardinali. Tutta la mia attenzione venne però catturata dal piedistallo nel mezzo sormontato da un’enorme gemma, la responsabile della pioggia di scintille che si riusciva a scorgere quarantacinque metri più in basso. Malgrado l’immensa potenza che irradiava, però, l’iniziale timore di venirne fulminata era completamente svanito e mi avvicinai trepidante ad essa. La gemma pulsò, e d’un tratto venni pervasa da un’energia incontenibile, circondata da un’aura giallo sole che mi abbagliò per qualche momento prima di rifugiarsi nel mio nucleo vitale.
    Poi tutto divenne nero e mi risvegliai nella Torre Planetaris.
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    URANO

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    Ty Blue Sykes
    24 Y.O. | Auror Recruit | MTF | voice
    Per qualche motivo, ritrovarmi in una sala riunioni dall’aria sofisticata mi trasmise un’inquietante sensazione di familiarità e dejà-vu, il logo dell’Eumagenetics impresso nelle mie retine mentre le facevo scorrere sul simbolo dell’azienda proiettato sull’enorme schermo che fungeva da parete e negli angoli di ogni pagina del fascicolo che avevo davanti. Il design era totalmente diverso e da come parlavano avevo l’impressione di essere alla presenza di soli No-Maj, ma non appena udii le parole di quello che doveva essere il capo di quella commissione sbiancai ed avvertii il volto e i muscoli irrigidirmisi.
    “Non è possibile”
    Poteva davvero trattarsi di un caso? I mondi in cui venivamo proiettati, oltre i portali, erano i medesimi per tutti? Uscita da lì avrei fatto meglio a chiedere a Minori, perché se si fosse trattato di simulazioni articolate inconsciamente ad hoc per ciascuno di noi avrei cominciato seriamente a preoccuparmi. Ade, che avevo mai fatto per indispettire Urano fino a quel punto?
    Riuscii per un soffio a mantenere la mia aplombe, chinando il capo e fingendo di leggere i file disposti di fronte alla mia postazione, ma più l’uomo proseguiva, più rimanere immobile e sopprimere i miei istinti omicidi diventava problematico. Che diavolo gli saltava in mente, a tutti quanti?! Perché dovevano sempre provare a distruggere il mondo prima di salvarlo? Che razza di mentalità distorta era?! Per lo meno il gruppo di farmacisti e magizoologi squilibrati del mondo reale non puntava a spazzare via dalla faccia della Terra tutti e sette i miliardi di persone che la popolavano, al contrario di questi pazzi malati! Si rendevano conto che così non ci sarebbe stata alcuna rinascita, che il pianeta sarebbe andato benissimo avanti anche senza di noi? Possibile che lo facessero per salvare il mondo stesso, e non i suoi abitanti? Anche in quel caso, però, non aveva alcun senso: chi se ne fregava se fossero morti con la coscienza pulita? Una volta nell’Aldilà sarebbe svanita anche ogni traccia di compiacimento dalle loro facce da culo. Più che per quell’illogica risoluzione, però, ero infuriata per l’egoismo che stavano dimostrando: nessuno aveva il diritto di prendere quella decisione per l’intera popolazione, ed io non avevo certo intenzione di crepare per il fatalismo di un gruppo di fanatici, nemmeno in un portale planetario o quel che era.
    Memorizzai alla svelta il codice DSTRY99, benché dubitavo che mi sarebbe servito a qualcosa, e mi morsi la lingua per non sbottare all’annuncio che l’avrebbero fatto detonare di lì a dieci minuti. Quindi erano davvero completamente andati di cervello. Perché diamine ne stavamo parlando a ridosso dell’esplosione se era già stato tutto deciso e i tecnici dovevano trovarsi già sul luogo in questione? Perché cazzo si trovavano qui anziché con i loro fottuti cari a scambiarsi smancerie prima della fine?
    E se invece fosse stato tutto un bluff? Se l’oligarchia che mi circondava avesse avuto un piano di riserva per mettersi in salvo e ritornare solo dopo molti secoli di assestamenti? E se-
    “Dannazione. L'unico modo per fermare la catastrofe è quello di disattivare l'oggetto DSTRY99 o come cazzo si chiama”
    Nell’istante in cui la voce estranea si insinuò fra le mie sinapsi interruppi le mie elucubrazioni e, reprimendo un sobbalzo, solcai con lo sguardo l’intera tavolata con discrezione, alla ricerca del responsabile: il colpevole, scoprii, era stato il ragazzo seduto di fronte a me, l’unico che avesse un’aria preoccupata in quella marmaglia di dementi.
    “Non mi dire, Sherlock” commentai acida in risposta, prima di abbassare le pupille sul cartellino appeso al suo bavero.
    Kevin Smith.
    Kevin.
    La stanza prese a girare e un brivido gelido mi corse lungo la spina dorsale mentre i presenti, capo incluso, cominciavano a disperdersi. Sul serio, quante probabilità c’erano di allearmi di nascosto con un tizio di nome Kevin per combattere una multinazionale dalle tragiche manie di grandezza per salvare il mondo? Cercai di placarmi, riflettendo sul fatto che se si fosse trattato di uno qualunque dei miei compagni e lo scenario fosse stato identico per tutti, quegli elementi non sarebbero neppure stati notati, che ero io a leggervi un significato laddove non c’era, eppure era tutto troppo perfetto per non concedermi il beneficio del dubbio.
    «Dobbiamo raggiungere il punto di trivellazione. Ora» asserii in tono duro, alzandomi dalla sedia e avvicinandomi all’ologramma che campeggiava su uno dei muri per tentare di capire se vi fosse qualche informazione utile.
    Kevin borbottò nervosamente: «Sapessimo la location sarebbe tutto più semplice... Dobbiamo trovare una mappa o qualcosa, o magari provare a chiedere a uno dei tizi che erano in riunione, anche se rischiamo di essere scoperti. Non abbiamo molto tempo»
    In quella mi voltai a fronteggiarlo, alterata. Sembrava più giovane di me, guidato da un certo senso di giustizia e slanci di eroismo, ma se era quello l’unico apporto che poteva dare alla missione avrei fatto meglio ad agire in solitaria. Mi ero risvegliata a meeting quasi concluso, e se nemmeno Smith sapeva dove avessero sepolto DSTRY99 significava che non ne avevano parlato neppure in precedenza, forse perché lo davano tutti per scontato, o magari perché tanto sarebbero tutti crepati di lì a un quarto d’ora. Perdere tempo con la diplomazia però era fuori discussione, e le cartelline sparse sul tavolo erano abbastanza rigonfie da indurmi a credere che contenessero parecchi dettagli su quell’operazione. Tra l’altro era evidente, dal discorso di Kevin, che fossimo entrambi infiltrati, e dubitavo che due semplici reclute potessero venire invitate ad una riunione dei vertici senza essersi distinte in qualche modo. Era una cosa che richiedeva pazienza, io in primis lo sapevo, perciò che diavolo avevamo combinato in tutto quel tempo? Davvero non avevamo raccolto il benché minimo indizio sul sito di trivellazione e giocato d’anticipo per impedire al pianeta di esplodere? Ade, eravamo le spie peggiori di cui si fosse mai sentito parlare.
    «Niente chiacchiere, cerchiamo nei dossier» lo istruii spiccia, dedicandomi a quelli accantonati dalla mia parte del tavolo e lasciando a lui gli altri. Mi auguravo di trovare ciò che avevamo bisogno di sapere, perché di uscire di lì senza neppure conoscere la conformazione dell’edificio e dove fossero collocati gli uffici dei responsabili era un’azione praticamente suicida, con l’alto rischio di venire scoperti e incarcerati per i restanti dieci minuti. Tanto sarebbe valso gettarsi direttamente nella fossa con l’ordigno e farla finita subito.
    Il fascicolo era lungo, più lungo di quanto mi aspettassi, e più ne scorrevo le pagine più inorridivo di fronte a ciò che stavo apprendendo: sembrava che DSTRY99 fosse l’ultimo modello realizzato di una lunga serie di bombe create con l’unico scopo di mandare in corto circuito il nucleo dei pianeti per trasformarli in roccia cosmica. La cosa più sconvolgente, tuttavia, era che quasi nessuna prova generale era mai stata fatta su nessun altro corpo celeste; l’unico tentativo effettuato, con una versione precedente dell’esplosivo, aveva visto Plutone uscirne vincitore senza neanche un graffio. E ancora timbri rossi che recitavano “CANCELED” e “POSTPONED”… No, decisamente quella faccenda non aveva un cazzo di senso. Che fretta avevano di morire? Non potevano almeno assicurarsi che quel coso funzionasse? Per un attimo provai un moto di speranza e incrociai le dita: chissà che l’ordigno non avesse fatto cilecca anche stavolta. Si poteva davvero essere così idioti e superficiali anche per una faccenda simile?
    Alla fine mi imbattei nel giusto file.
    «Eccolo, ci sono!» esclamai, e Kevin subito fece il giro del tavolo e mi affiancò. «Non è distante» indicai, sudando freddo. «Solo tre chilometri da qui». Meno di quanto ci voleva per farsela a piedi dal Barbican al Big Ben. Anche la percentuale di riuscita, del 43,5%, era a nostro favore, avvalorando la mia convinzione che fossero solo una mandria di coglioni per non aver fatto le prove generali prima del grande evento.
    Seguì un intenso minuto di pianificazione – quanti ne mancavano ormai alla detonazione, due scarsi? -, durante il quale Kevin mi confidò di essere un buon pilota. Nemmeno io me la cavavo male con le auto, avevo persino preso la patente quando ancora vivevo negli Stati Uniti, ma era passato talmente tanto tempo da quando mi ero seduta al volante di una macchina che avrei solo finito per farci schiantare contro il primo palo disponibile.
    A quel punto estrassi la bacchetta e Dissimulai me e Kevin. Il ragazzo parve sconvolto, ma non avevo tempo di preoccuparmene, tanto più che in tutti gli altri mondi che avevo visitato usare la magia era un’abilità comune.
    «Muoviamoci!» gli intimai solamente, mentre prendevamo le scale di emergenza. In quello stesso momento la terra tremò con una potenza tale che ruzzolai per due rampe, sbattendo violentemente contro le pareti e gemendo addolorata per le botte ricevute. Kevin non era messo meglio. Grazie a dio non avevamo imboccato l’ascensore, o a quel punto ci saremmo ritrovati a metà fra la probabilità di dover di aprire le porte per uscirne, o precipitare per trenta piani incontro a morte certa e immediata. In quelle condizioni, in assenza di gravità, forse non avrei neanche fatto in tempo a descrivere il giusto movimento del polso per rallentare la cabina.
    Completare la discesa fu tutt’altro che semplice: l’accesso alla porta antipanico dell’atrio era completamente bloccato dall’altro lato, e se avessi usato un Bombarda per liberare la via avrei sicuramente peggiorato la situazione. Con una nuova ondata di odio e fretta continuammo a scendere fino ad approdare nel parcheggio sotterraneo, il cui soffitto rivelava ampie parti dei piani superiori. La carreggiata non era messa meglio, mezza ricoperta da detriti di cemento, cavi elettrici, fogli e pezzi d’arredamento sprofondati dai livelli soprastanti. Da lì percorremmo alla svelta la rampa di uscita e ci ritrovammo all’entrata dell’edificio, dove Kevin mi indicò la sua auto facendomi cenno di saltare su.
    «Veloce, sali!» mi gridò, ed io non me lo feci ripetere due volte, balzando sul sedile del passeggero e sospirando per quella piccola fortuna: parecchie vetture erano pericolosamente in bilico sulle fosse che si erano aperte lungo la strada, altre schiacciate da porzioni di palazzi, e trovarne un’altra avrebbe potuto rivelarsi un’impresa poco celere.
    «Allacciati la cintura... non sarà un viaggio piacevole!»
    Obbedii, ma Smith mise in moto e premette sull’acceleratore prima ancora che potessi infilare la cinghia al posto giusto, premendomi contro lo schienale del seggiolino.
    Ogni secondo che passava le scosse si facevano sempre più frequenti e infernali, producendo un fracasso primordiale come non ne avevo mai sentiti in vita mia, rumori stridenti, roboanti e rocciosi che davano l’impressione che l’intero pianeta stesse ringhiando per la sofferenza e la rabbia, contraendosi su se stesso. Se non fossi stata così focalizzata sulla missione, vibrante di adrenalina per il desiderio di restare viva, avrei forse avuto un attacco di panico. Io, che non ne avevo mai avuti neppure nel laboratorio, nemmeno dopo la morte di Doc, di fronte ad un nemico troppo forte per essere sconfitto. Ma allora era stato diverso, si era trattato di un avversario concreto, reale, un bersaglio che potevamo colpire, vedere e toccare. Cos’avrei mai potuto fare per tenere incollate le zolle di terra che ci si stavano sbriciolando sotto gli pneumatici? Nemmeno il più grosso Reparo collettivo al mondo avrebbe potuto sanare la crosta terrestre.
    Kevin aveva ragione, guidava come un folle, ma era un pilota ben più abile di quanto non avesse dichiarato. Le sue mani non si scollavano dal volante, e la leva del cambio rimase piantata sulla quinta per tutto il tragitto, schivando ostacoli ed impennandosi su pezzi di carreggiata che si inclinavano sempre più pericolosamente verso l’abisso sottostante. Dovevo trattenermi per non guardare negli specchietti retrovisori, nei quali si rifletteva la distruzione di un’intera città risucchiata da voragini ampie quanto i laghi canadesi e avvolta dalle fiamme del mantello, quasi il cemento non fosse stato altro che l’ennesimo camino di un vulcano da percorrere per poter emergere dal nucleo della terra. Qua e là, quando i detriti erano troppi, me ne liberavo con poderose ondate di vento e fatture detonanti, ma ad una certa ci accorgemmo che, in lontananza, la strada era bloccata da un intero edificio riverso su di essa.
    «Dannazione... che facciamo?». Lì per lì Kevin mi informò della presenza di un’altra strada, probabilmente sgombra data la direzione che avevano preso le scosse telluriche; avremmo però allungato il percorso di almeno cinque minuti, al che scossi la testa e lo incitai a procedere.
    «Vai a tavoletta, ci penso io!»
    Lui sollevò leggermente il piede dall’acceleratore, guardandomi come se fossi pazza.
    «Che vuoi fare? Spostiamo le macerie? Le distruggiamo? Facciamo volare la macchina? Altro?»
    «Sta’ zitto, mi devo concentrare!»
    berciai incazzata, interrompendo la mia opera di visualizzazione a metà.
    «Dài, sbrigati, sei tu quella intelligente... e sappi che è la prima e probabilmente l'ultima volta che lo sentirai dire da me!»
    «STA’ ZITTO E GUIDA, KEVIN!»
    strillai furiosa, chiamando a raccolta ogni grammo di concentrazione ed energia che avevo per edificare una rampa. Parte del palazzo che ci sbarrava la strada e che si faceva via via sempre più vicino era crollata e sfondata, consentendomi di regolare l’altezza della piattaforma in solido ferro ed irrobustirla per evitare che si sfondasse sotto il peso dell’auto. Avrei potuto tentare di farla Levitare, certo, ma probabilmente sarei svenuta per lo sforzo, e con l’incedere dei fossi dietro di noi – che percorso stavano seguendo, peraltro? L’epicentro non era mica di fronte a noi, anziché alle nostre spalle? – non avrei avuto modo di scendere e liberare la via masso per masso.
    «Il palazzo è sempre più vicino!»
    «Non rallentare, continua!»
    «Tu sei pazza!»
    «Non fermarti!»
    «JAIDEN, CAZZO, COSÌ CI SCHIANTIA-»
    «RAMPA ADMITTO
    urlai, indirizzando il catalizzatore fuori dal finestrino e descrivendo un movimento semicircolare in senso orario, lottando contro il vento che mi soffiava contro il braccio.
    Un secondo dopo, di fronte a noi si materializzò una piattaforma appoggiata in obliquo sulle macerie, larga e poco stabile data l’inclinazione, ma sufficientemente robusta per non spaccarsi sotto il peso della vettura. Mi pulsava la testa e il respiro si era fatto più concitato, ma avrei avuto qualche minuto per riposarmi prima di arrivare a destinazione, spossata per l’evocazione estenuante.
    Kevin vi salì con uno scossone, senza mai rallentare, e quando raggiunse l’estremità della rampa premette il pedale più che mai, slanciandoci a mezz’aria per superare la porzione di edificio che non ero riuscita a coprire.
    «Tienitiiii aaaaaaah!»
    Le nostre grida di panico si mischiarono nell’abitacolo, seguite da sussulti ed imprecazioni quando atterrammo sull’asfalto dall’altro lato. Le sospensioni dell’auto dovevano essere ormai andate, e nello sbalzo della caduta avevamo picchiato forte la testa contro il tettuccio; avevo avvertito la nuca incrinarsi e le costole contrarsi, ma me la sarei cavata con un banale torcicollo. Più che altro fu difficile lottare contro l’air bag, che nello schianto si era gonfiato bloccando a entrambi la visuale, ma riuscii a liberarmene facendoli esplodere e in una manciata di secondi fummo fuori città.
    L’asfalto si era trasformato in sterrato prima e in sabbia desertica poi, e per un istante trovai la vista delle dune rassicurante, uno scenario ben differente e coeso dalla città devastata che avevamo superato per un pelo.

    [VALLE DI URANO]

    Finalmente in lontananza, oltre le dune all’orizzonte, cominciammo a distinguere la sagoma di un’enorme struttura, ma c’era ben poco che potessimo fare contro la sabbia sdrucciolevole e non avrebbe avuto senso trasformare la berlina in una jeep a cento metri dalla destinazione. All’ennesimo tentativo di procedere, storditi dal suono acuto e ronzante del motore ingolfato, io e Kevin scendemmo dalla macchina e prendemmo a correre verso la sommità del pendio.
    Una volta in cima, la vista di un’enorme fossa ci mozzò il fiato, e sentii il cuore e lo stomaco stringermisi nel petto. Era sbagliato, spaventoso. Dovevamo fermare il DSTRY99 prima che aprisse una breccia così profonda nel nucleo da rendere qualunque altra azione inutile, condannandoci all’estinzione.
    Il macchinario che lo controllava era fissato tramite una serie di binari e piattaforme al centro della voragine, e da esso si estendeva, verso il basso, un lungo tubo di chissà quale lega di acciaio che sprofondava nell’oscurità infiammata: il pistone della trivella.
    «Forse dovremmo farlo esplodere... » suggerì Kevin con un filo di voce, e mi limitai ad annuire in silenzio, studiando le quattro guardie armate che sorvegliavano il computer di controllo. Portavamo pistole e fucili di stampo No-Maj, strumenti contro i quali non potevo granché in uno scontro ravvicinato, o se ci avessero individuati in cima alla duna.
    Nel corso della fuga l’incantesimo di Disillusione era svanito, e prima di scendere lo rinnovai su entrambi. Era una copertura blanda, specie dato che il suolo su cui camminavamo avrebbe reso palese la nostra posizione, ma tenendo gli occhi puntati sul terreno i soldati sarebbero stati più vulnerabili. In quella, un’altra violenta scossa fece tremare tutto ed io e Kevin scivolammo lungo la collina, il nostro baricentro sbilanciato all’improvviso. Anche i soldati oscillarono, ma non fecero una piega di fronte alla valle che si stava sbriciolando tutto attorno, rinchiudendoci in una morsa sempre più serrata. Se anche fossimo riusciti a bloccare il DSTRY99, come avremmo fatto a fuggire? Su quale placca ci saremmo rifugiati?
    A pochi passi dai militari, feci guizzare il mio pioppo bianco e ne atterrai uno con uno Schiantesimo, ma la corazza che portava era talmente spessa che lo sbalzai solamente via, mettendo in allarme i suoi compagni. Kevin si affrettò nella sua direzione, approfittando di quei preziosi attimi di stordimento per rubargli la pistola e cominciare a sparare agli altri avversari.
    Nel giro di un secondo l’intero spiazzo era diventato un campo di battaglia, con un’unica guardia messa K.O. da un Petrificus e le altre che ci marcavano strette. Un proiettile mi aveva già ferita di striscio la spalla, e Kevin non era messo meglio.
    “Sta’ giù!” lo avvertii allarmata, prima di scagliare trecentomila volt di contro il soldato che stava per afferrare Kevin con un Elettro portentoso. Smith mi ringraziò, ma uno dei compagni del tizio che avevo fulminato non si era lasciato sfuggire il punto di partenza della saetta, e prima che potessi rendermene conto mi ero beccata un’altra pallottola dritta nella spalla destra. Gemetti, annaspando, con Kevin che mi chiamava preoccupato nella testa.
    “Non pensare a me, vai verso quel coso e distruggilo! Io li tengo impegnati!”
    Il ragazzo eseguì subito, schivando il colpo di un soldato e sfrecciando sulla sabbia verso la tastiera di comando mentre una pioggia di proiettili ci circondava. Imbastii uno scudo per difendermi dai colpi, cercando al contempo di retrocedere a mia volta verso il macchinario così da poter erigere una barriera che potesse proteggere entrambi, ma i tre militari e i loro fottuti fucili erano uno strazio da tenere a bada. Fu in quel momento che decisi di ricorrere al tridente di Nettuno, accovacciandomi e tracciando con la bacchetta il simbolo del dio del mare – prima la u, poi la i ed infine il trattino in basso.
    «Posidonis tridentis
    Il pioppo si illuminò di blu e un istante dopo il fascio di luce proruppe dal catalizzatore scagliandosi come un arpione verso la guardia più vicina; da lì si divise in altri tre piccoli forconi, infilzando i soldati rimanenti e…
    Cazzo. Dov’era il terzo tridente?
    «Jaiden… perché… ?» mi chiamò sconvolto Kevin, ed io, con un brivido di orrore, mi girai a guardare il mio commilitone piegato su se stesso, mezzo accasciato sulla macchina. Il tridente non aveva provocato danni sanguinosi, ma la punta conficcata nelle viscere doveva fare un male cane.
    «Merda! Scusami, io-… » balbettavo come una demente. Dovevo schiarirmi i pensieri.
    «Siediti un secondo, dimmi cosa devo fare-»
    «Jaiden, ATTENTA!»
    . La voce di Smith risuonò tanto nella valle quanto nella mia testa e, con uno scatto imprevisto, si interpose fra me e una crivella di proiettili sparati da una delle sentinelle distese sulla sabbia.
    «KEVIN, NO
    Mi sporsi d’istinto per afferrarlo ed evitare che cadesse nel fossato, riuscendo ad acciuffarlo per un soffio, ma avevo calcolato male peso e distanza e finii col rimanere sospesa nella fossa solo per i polpastrelli, la bacchetta precipitata negli abissi infuocati. Lo shock era tale che faticavo a respirare.
    «Jaiden, lasciami... » biascicò lui con l’ultimo grammo di energia che gli rimaneva, supplicandomi con gli occhi vitrei, quasi distinguibili sotto la Disillusione, di liberarmi del suo corpo prima che fosse troppo tardi. Lo guardai con le palpebre strabuzzate, le cornee arrossate e lucide, e con uno sforzo d’animo che non credevo di riuscire a compiere allentai la presa sul suo avambraccio. Kevin precipitò nel vuoto come una marionetta senza fili, invisibile alla vista, e tornai ad issarmi con un ringhio furibondo sulla piattaforma, ben intenzionata a premere tutti i tasti possibili per mandare in corto circuito il sistema.
    Fu allora che l’ennesima scossa fece tremare la terra, ed un crepaccio mostruoso scivolò a zigzag lungo la collina facendo scorrere la sabbia verso il nucleo e risucchiando con sé il terreno sulla quale appoggiava. Due secondi dopo il cratere aveva inghiottito anche il suolo dove i soldati si stavano contorcendo e, prima che potessi anche solo poggiare un’unghia sulla tastiera, il ponte sotto i miei piedi si frantumò e caddi, urlando, verso una fine di fuoco e fiamme.

    GAME OVER

    Mi risvegliai ansante e grondante di sudore contro la parete asettica di una stanza sconosciuta, il petto che si alzava e abbassava furiosamente, il cervello che vorticava, gli indumenti bagnati e la pelle lucida. Avvertivo qualcosa di fastidioso appiccicato alla faccia e, con uno scatto irritato, mi liberai di quello che doveva essere una sorta di visore, scagliandolo lontano. Gli occhi mi saettarono circospetti e spaventati verso l’ambiente circostante, cercando di capire perché non fossi tornata alla Torre Planetaris come al solito, ed in quella un timbro familiare si lagnò a pochi passi da me.
    «Uff... l'avevo detto che questa simulazione era troppo difficile per noi!»
    «Kevin…?» esalai con un filo di voce. Lui non diede segno di avermi sentita, limitandosi a scrocchiarsi le scapole e a massaggiarsi stancamente il collo.
    «Beh, è stato un buon allenamento, ma devo dire un po' poco realistico. Spero che non dovremo davvero salvare il mondo in futuro! Essere apprendisti non è facile, uff... »
    Allenamento? Quindi era stato tutto finto? Il portale di Urano mi aveva condotta nella simulazione di una simulazione? Avevo la nausea e le vertigini, i ricordi di quanto avevo appena vissuto che continuavano a bruciarmi il cervello. Sul serio non c’era stato niente di vero? Eppure era stato tutto così realistico, non avevo neppure sentito la pressione del casco durante l’intera missione…
    Sospirai, frustrata. Se ero viva, c’era ben poco su cui sindacare. Ci ero cascata con tutte le scarpe.
    «Ti vedo un po' scossa... ti senti bene?»
    Pareva che Kevin si fosse accorto nelle mie condizioni, ma io mi limitai ad annuire rigidamente una sola volta, per poi accettare la sua mano per issarmi quando me la porse. Per qualche secondo Smith mi guardò di sottecchi – chiaramente non se l’era bevuta -, però non insistette e lo apprezzai.
    «Io vado a riprendere le forze alla Fonte di Urano, ti conviene venire con me» decretò, aprendo la porta della sala delle simulazioni e tenendomela ironicamente aperta. All’inizio, quando avevamo cominciato a confabulare, avevo pensato che fosse molto simile a Rich per modi di fare e di esprimersi, ma con Rich non sarei mai riuscita a trovare una tale sinergia.
    L’aria aperta fu un toccasana per la mia sanità mentale e i miei polmoni dopo un’infinità di opprimenti corridoi in cemento, e lasciai che le iridi scorressero lungo il paesaggio all’orizzonte, senza fretta. Ci trovavamo in una località montana, circondati dall’erba, un luogo che non mi sarei mai aspettata data la conformazione della base dalla quale eravamo appena usciti. Mi attardai più che potei sul prato prima di seguire Kevin lungo un sentiero che si inerpicava verso un crepaccio alle nostre spalle, una sorta di grotta di roccia dal soffitto aperto nel mezzo della quale campeggiava uno stagno dall’acqua vaporosa, come una sorgente calda. Sembrava quasi l’oasi di una fiaba, e provai immediatamente un intenso desiderio di levarmi quegli abiti zuppi di sudore ed immergermici finché non mi fossi sentita meglio.
    «Un bel bagno e saremo freschi come un fiore appena sbocciato!». Sì, mi sarei sorbita persino l’ironia di Kevin se avesse significato che avrei potuto rimanere lì per sempre (o per qualche ora, almeno).
    Senza il minimo accenno di pudicizia mi levai scarpe, pantaloni e t-shirt rimanendo solo in biancheria intima, con un paio di mutandine comode ed un reggiseno sportivo. Un piede per volta, entrai nel laghetto e mi ci immersi fino al collo, liberandomi anche degli ultimi capi di vestiario quando i flutti mi coprirono completamente e lanciandoli sulla spiaggetta. Pure Smith si era messo in boxer, ma chinò il capo in avanti per bagnarsi anche testa e capelli, cosa che imitai con piacere.
    Era la sensazione più bella del mondo, e più l’acqua lavava via fatiche e angosce, più mi sentivo viva e piena di energia. In effetti, era come se lo stagno stesso fosse animato, rilucente di una vaporosa aura azzurrognola che andò fluttuando e condensandosi dentro di me. Sapevo cosa significava, sapevo che stavo per tornare nel mondo reale, ma volevo rimanere lì ancora un po’, solo un altro po’, per sciogliermi i nervi e la mente.
    Fu tutto vano, contrastare il processo era impossibile. Ancora una volta tutto diventò nero, cancellando alla mia vista Kevin, la pozza e il mondo di Urano, prima di ritrovarmi nell’atrio della Torre con indosso i miei vestiti e colma di rammarico.
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    TERRA II - BIOMA DEL GAS
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    Samantha Jensen O’Connor
    17 Y.O.| VI year | Hufflepuff Headgirl, Captain & Seeker | Chaotic Good | voice ϟ
    "

    CITAZIONE
    BIOMA DEL GAS

    Dall'esterno delle mura proviene il suono di strumenti meccanici. Squadre di uomini appesi ad alberi altissimi armeggiano con un materiale che utilizzano per ricoprire ogni pianta, come una guaina impermeabile che le isola. Qualcuno, per errore, pratica un'incisione sulla corteccia. Da essa fuoriesce un umo denso e tossico.
    Qualcuno urla un avvertimento e gli uomini imbracciano delle armi babbane. Nessuno ha più una bacchetta da molti anni, da quando gli alberi, a causa delle polveri inquinanti prodotte dagli esseri umani, hanno cominciato a emettere gas tossici. Senza bacchetta i maghi hanno perso il loro potere (tu hai comunque la tua bacchetta, una vera rarità da queste parti, fai attenzione). Lo stesso uomo urla di tenersi pronti: presto arriveranno i custodi degli alberi.

    l termine del dibattito era così sfibrata che non sapeva con quali energie sarebbe riuscita a non farsi ammazzare su Terra II, ma si costrinse ugualmente a raddrizzare la schiena e ad esaminare con attenzione il diorama, alla ricerca di un territorio in cui non si sarebbe sentita totalmente a disagio. Scorse, in ammollo in un oceano melmoso, scuro e putrido, un’imbarcazione solitaria, ma lei non era Grace e non aveva alcuna intenzione di avere niente a che fare con quel fluido nauseabondo. Neppure la città di metallo la stuzzicava – già disprezzava le metropoli attuali, figurarsi un intero agglomerato di ferraglia -, perciò non le rimaneva che scegliere fra due comunità situate nei pressi di alcune foreste che non potevano essere più diverse l’una dall’altra: una, per quanto poteva distinguere dalla mappa, sembrava costituita da alberi riflettenti e delicati, l’altra da una serie di piante di svariate altezze. Per quale optare? Le fronde trasparenti del primo bosco erano affascinanti, ma aveva la pessima sensazione che non fosse altro che uno specchietto per le allodole, così, dopo aver preso un profondo respiro e aver stretto con forza il catalizzatore nella mancina, sfiorò il bioma delle sequoie con l’indice destro.
    L’istante successivo ogni traccia della Struttura era svanita, come se non fosse mai esistita e lei fosse sempre stata immersa in quell’immensa foresta. Non era stato come un viaggio in Passaporta, né tantomeno come attraversare un portale: semplicemente il panorama era cambiato e, per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere i confini della mappa, né il volto del docente all’orizzonte. Wallace aveva ragione: era tutto fin troppo realistico. Le prime cosa che la colpirono, però, non furono né lo scenario naturale né la maniera in cui ci si era ritrovata, bensì il rumore e l’oscurità. Dopo la luminosità ed il silenzio quasi assoluti della stanza, il cielo plumbeo del crepuscolo e il cacofonico stridio dei congegni meccanici che si allungavano, innalzavano e strisciavano sul terreno le pareva assordante, stordente al punto che dovette coprirsi le orecchie e strizzare gli occhi prima di riuscire ad abituarsi, sgattaiolando dietro i primi arbusti disponibili per evitare di dare troppo nell’occhio, il cuore in tumulto, rammentando a se stessa che qualunque cosa le fosse capitata lì dentro se la sarebbe portata anche fuori. Sarebbe stato tutto vero, l’insegnante aveva ragione: non era come quando assumeva la Pozione di Biancaneve, in cui la sua personalità e i suoi pensieri cambiavano in base allo scenario: era se stessa, fino all’ultima particella di coscienza.
    Con i battiti accelerati, puntò allarmata le iridi attorno a sé per assicurarsi che nessuno si fosse accorto della sua presenza e, dopo essersi guardata le spalle, scostò qualche fronda per poter osservare meglio la scena. Già solo quel gesto le permise di scoprire che qualcosa non andava, inducendola ad abbassare le pupille sul fogliame dell’arbusto: lì per lì non ci aveva fatto caso, ma ogni centimetro del cespuglio era ricoperto da una sottile guaina, dalla sommità fino alle radici, tanto che il fruscio delle foglie le risultò attutito e soffocato. Ma non si trattava di un caso isolato: sollevando gli occhi notò che le macchine assordanti all’opera sul territorio non si stavano muovendo da sole: c’erano abitacoli quasi invisibili fra le ombre, presumibilmente le cabine di pilotaggio, e i bracci che si estendevano al di sopra delle vetture erano una sorta di gru grazie alle quali varie squadre di uomini e donne (dalla sua posizione non riusciva a distinguerli), partendo dall’alto, stavano ricoprendo la flora della zona. La stessa scena, guardandosi attorno, si stava ripetendo per ogni singolo esemplare, eccezion fatta per quelli che si erano lasciati alle spalle, già perfettamente imbustati. La Tassorosso corrugò le sopracciglia, confusa: perché qualcuno avrebbe dovuto strangolare le piante? Era vero, il mondo era inquinato, ma come pensavano di ripulire l’atmosfera dall’anidride carbonica se erano proprio le piante a produrre l’ossigeno? Perché disfarsi dei polmoni della Terra anziché riforestare?
    In quella, uno squadrone passò davanti al suo nascondiglio, e lei senza neppure pensarci si chinò ulteriormente dietro l’arbusto, la bocca secca per la tensione, per poi sporsi lateralmente per studiarli da dietro. Sembrava una pattuglia babbana, forse una sorta di SWAT, perché erano armati e si muovevano con rigidità e rigore. Cosa poteva significare? Era finita in un bioma babbano? E soprattutto, c’era ancora la magia lì? In un moto di puro terrore, Sam estrasse circospetta il catalizzatore e, puntandolo verso la divisa stropicciata che aveva indosso, mormorò un «Vestis», nella mente l’immagine degli indumenti degli operatori sospesi a decine e decine di metri d’altezza, una sorta di tuta compatta, di tessuto spesso e scuro con le zone di ginocchia, gomiti e spalle più imbottite. Anche gli stivali erano della medesima fattura, alti fino a metà polpaccio, robusti e lerci di fanghiglia.
    C’era però anche un altro dettaglio da prendere in considerazione: indossavano tutti una maschera, di quelle con il filtro per l’aria e la parte anteriore trasparente per poter vedere. Quindi l’atmosfera lì era irrespirabile, tossica? Con un brivido che le correva lungo la spina dorsale, si azzardò ad inspirare con più calma, focalizzandosi sull’atto al quale non aveva fatto caso fino a quel momento e cercando di individuare qualcosa di insolito nella qualità dell’aria.
    “Ugh”
    Sopraffatta com’era stata da tutti quei nuovi stimoli non vi aveva badato granché, forse perché abituata ad annusare ogni sorta di effluvi nell’aula di pozioni, ma c’era senz’altro qualcosa che non andava in quella miscela gassosa, una nota acre e pungente che le fece bruciare la gola.
    “Geminio!” scandì mentalmente, il suo noce puntato verso la maschera dell’uomo nell’abitacolo della macchina più vicina. Non aveva mai avuto a che fare con un oggetto simile e non aveva idea di come funzionasse un filtro per l’aria, perciò non sarebbe stata in grado di Evocarne una funzionante con l’Admitto; si sarebbe trattato solo di un orpello inutile dall’aspetto di una maschera. Il visore si materializzò subito alla sua sinistra, ma prima che potesse anche solo afferrarlo, una serie di urla e voci si innalzarono al di sopra del fragore delle macchine.
    «Cosa è stato?»
    «Non lo so, ho visto un lampo argentato-!»
    “Merda!”
    Si era totalmente dimenticata della manifestazione dell’Incanto Gemiotico, lo usava talmente di rado-
    «Jay, attento-!»
    Uno strillo più acuto degli altri, qualche metro più su, guidò i suoi occhi verso l’alto, dove uno dei lavoratori aveva perso l’equilibrio e, nel tentativo di non spiaccicarsi al suolo, aveva provato ad aggrapparsi ai rami. Non erano protuberanze sottili, anzi, avevano un’aria piuttosto solida, eppure si spezzarono ugualmente sotto il peso dell’uomo, come fossero malate, sfregando con violenza contro il tronco con l’operaio ancora mezzo aggrappato finché non raggiunse quasi terra.
    Stava per tirare un sospiro di sollievo, le pulsazioni a mille, quando si rese conto che l’intero squadrone sembrava inorridito, mentre indicavano forsennatamente la crepa nella corteccia che si era aperta durante la caduta.
    Cosa diavolo era, quella roba?!
    Dalla frattura stava emergendo una nube densa e putrescente, nera come il catrame e striata dai bagliori ocra delle scorie radioattive.
    “Oh, no”
    Ecco perché le guaine e le maschere-
    Agì all’istante, istintivamente, afferrando la maschera ed assicurandosela davanti al viso, senza sapere che doveva sbloccare il bocchettone per poterla far funzionare. I primi secondi furono di agonia pura, come se anche lei stesse soffocando in un sacchetto di plastica, ma prima di andare nel panico si impose di trattenere il fiato ed armeggiare con il filtro. Finalmente le sue dita intercettarono una specie di rotellina, e subito, spostandola, un fiotto di aria fresca le riempì i polmoni.
    Fece appena in tempo: un secondo dopo il suo corpo si ghiacciò, il clic inconfondibile del caricatore di un’arma da fuoco che entrava in posizione, pronto ad espellere una pallottola diretta alla sua nuca. Sollevò le mani lentamente, gli occhi tremanti mentre anche gli altri, attraverso le fronde, venivano tenuti sotto tiro dai membri della SWAT.
    «In piedi»
    A Sam non passò neppure per l’anticamera del cervello l’idea di non obbedire, ma nell’attimo in cui ebbe eseguito l’ordine si accorse, con un brivido di orrore, che aveva lasciato la bacchetta per terra, là dove l’aveva appoggiata momentaneamente per infilarsi la maschera.
    «Che ci fai qui, dov’è la tua squadra?»
    Aveva un accento fortemente americano, e ripensando alla collocazione del bioma sulla mappa e al tipo di vegetazione dedusse che dovevano trovarsi nel Sequoia National Park. Inoltre, qualcosa le suggeriva che su Terra II i contatti fra lontani continenti si fossero estinti da parecchio, e lasciar trapelare la propria parlata l’avrebbe probabilmente collocata nel mirino delle attenzioni di tutti.
    «Lassù» rispose, sforzandosi di nascondere il più possibile le inflessioni britanniche e indicando un punto alla sua sinistra, dove un’altra squadra stava scendendo a terra. «Avevo allacciato male la maschera e mi era caduta, sono scesa a riprenderla»
    Il soldato imprecò per la quantità di incidenti che si stavano verificando negli ultimi giorni, e la spintonò con veemenza verso la strada principale, dove i vari reparti si stavano radunando.
    «Cazzo» udì, mentre sfilava e si univa a quello che aveva millantato essere il proprio team, pregando che non si accorgessero che tra le loro fila c’era un’intrusa prima che Wallace la tirasse fuori da lì. La voce le era familiare: era l’uomo che aveva urlato a “Jay” di stare attento, forse uno dei capisquadra. «Stanno arrivando i custodi degli alberi… »
    Tutti gli operai che lo circondavano spostarono subito gli occhi verso un punto oltre la collina: in effetti il rombo dei motori non si era mai interrotto, solo che adesso non proveniva dai macchinari dello spiazzo. Era un riverbero lontano ma netto, che andava avvicinandosi sempre di più. In un attimo fra i lavoratori si diffuse un brusio di preoccupazione, che la SWAT si premurò subito di mettere a tacere portandosi i fucili ad altezza occhi.
    Adesso erano tutti schierati in varie file di fronte ai militari, mentre la retroguardia faceva un giro di controllo per, suppose la O’Connor, assicurarsi che non mancasse nessuno all’appello.
    «Caporale Swan, ho trovato questa, laggiù fra i cespugli»
    I mormorii si riaccesero subito quando il soldato passò l’oggetto al suo superiore, e Sam, sbirciando oltre le teste di chi stava in fila nello schieramento davanti a lei, per poco non ebbe un capogiro.
    Era la sua bacchetta.
    Stavolta i soldati ebbero qualche difficoltà in più ad imporre il silenzio.
    «Sarà vera?»
    «Ma certo che è vera!»
    «Veniamo perquisiti prima di cominciare a lavorare, come avrebbero fatto a non accorgersene?»
    «Forse non è neppure di uno di noi, forse è di qualcuno che l’ha persa scappando dalla città… »
    «Ci scommetto che è stato quello ad accecare il caposquadra… »
    «Se è così, significa che qualcuno di noi deve averla usata»
    «E chi, genio? A parte i Marshall, eravamo tutti lassù»
    «Allora forse sarà stato uno di loro-»
    «Zitto, idiota! Se dovessero sentirti-»

    Ma l’uomo non riuscì a terminare la frase, perché in quel momento una sfilza di vetture corazzate superò la collina e sfilò di fronte allo schieramento, fra le due linee di Marshall. Sulle fiancate, sbiaditi, corrosi e quasi invisibili, Sam distinse, mentre cercava di non soffocare per il terrore, l’immagine stilizzata di cinque sequoie disposte a piramide e circondate da una linea che ne seguiva il profilo.
    I custodi degli alberi.
    CITAZIONE
    Le macchine si fermano davanti all'esercito schierato. Da essa scendono soldati armati fino ai denti, non un centimetro di pelle è visibile sotto le pesanti tutte che indossano. Il primo a scendere dall'auto è il primo ad avanzare. Tiene il fucile basso, ma i suoi commilitoni, appena messo piede a terra, puntano le armi contro ognuno di voi.
    "Abbassate le armi," l'ordine è perentorio. Gli uomini di Swan (bella reference) fissano il loro Caporale, incerti sul da farsi. Vorrebbero tutti liberarsi di loro sparandogli contro l'intero caricatori, ma sono costretti a seguire gli ordini di Swan e, a un suo cenno, abbassano i fucili.
    "Schifose bestie," è la reazione di uno degli uomini di Swan. In risposta, dal fucile di uno dei custodi parte un colpo. L'uomo che aveva parlato si accascia, urlante, contro il tronco della pianta ferita, colpito al ginocchio da un proiettile. Nessuno protesta.
    "Qualcun'altro ha scordato le conseguenze del declassamento subito dalla vostra specie?" a parlare è di nuovo il capo dei custodi. "Nessuno? Molto bene, questo renderà più facile il lavoro".
    "Nestex, lasciaci mettere prima in sicurezza la pianta, per favore," il comandante Swan (bella reference) si rivolge al capo dei custodi in tono accorato. Quest'ultimo però ride delle sue parole.
    "Swan, hai forse scordato i termini dell'amnistia? voi esseri umani ci avete portati a questo punto, il contratto parla chiaro. A noi è riservato il diritto di estrarre ogni oncia di linfa dalle piante, purché queste non vengano ferite da noi. Se morirà qualcuno sarà per la vostra incapacità. Non siete niente senza le bacchette," ride, e la sua risata si diffonde ai suoi sottoposti.
    "Voi," indica due soldati dei suoi, "salite a estrarre la linfa". I soldati obbediscono, scalano la pianta e cominciano la lavorazione. Trapanano e allargano il foro, mentre a terra la tensione continua a essere evidente. Infilano la sonda dell'estrattore, qualcosa però sembra allarmarli.
    "Capo, è un anomalo," dice uno. La linfa fuoriesce più copiosa di quanto immaginato, ricopre entrambi i custodi, imprigionandoli come all'interno della resina, e comincia a colare lungo il tronco. I custodi, come gli esseri umani, non avevano considerato che la vita si sarebbe adattata anche a loro, alle guaine che forzavano le loro caratteristiche. Con sorprendente velocità, la linfa muta la forma stessa della pianta, che assimila esseri umani e custodi al suo interno per diventare qualcosa di nuovo: una pianta senziente. Muove la testa con raziocinio, fissando ognuno di voi, come per contarvi. Le sue ferite si sono chiuse, la linfa non fuoriesce più. Dal tronco, però, si formano diverse creature di legno, un esercito pronto a sfidare, a vendicare tutte le razze che hanno prima avvelenato e poi imprigionato ogni essere vegetale del pianeta (se vuoi creare una storia più complessa puoi anche far parlare la pianta, che accuserà sicuramente tutti i colpevoli). (Per aiutarti ti lascio degli esempi di creature nate dalla pianta, immaginale tutte con attributi vegetali 1 - 2 - 3 - 4).
    All'interno della tua maschera, sulla visiera, appare una scritta che vedrai solo tu. Riporta la formula e le modalità di utilizzo dell'incanto di ibridazione (lo trovi sotto). Dopo averti dato modo di memorizzarlo, la scritta sparisce per lasciar spazio a una raccomandazione. Per tentare di uscirne.

    L’attimo in cui i Custodi spensero i motori delle proprie vetture fu il primo momento di silenzio che avrebbe potuto godersi da quando era giunta su Terra II, se non fosse che diverse decine di fucili erano adesso puntate sullo schieramento delle squadre di incappucciamento. Sam si impose di non muovere un muscolo e non distogliere troppo lo sguardo dai Marshall e dai Custodi, conscia che la distrazione, specie in una situazione simile, poteva costare molto cara. Gli occhi si fissarono dunque sull’aspetto degli ultimi arrivati, figure in apparenza umane il cui corpo era interamente coperto da una tuta ermetica, più imbottita di quelle dei Marshall e con un casco da apocalisse nucleare. Aveva pensato che i supervisori armati che avevano interrotto le attività delle gru fossero una pattuglia di grado inferiore rispetto ai Custodi, tuttavia l’esclamazione di uno degli uomini del Caporale Swan le fece intendere all’istante che fosse del tutto fuori strada: non solo si era beccato una pallottola dritta nel ginocchio – all’udire lo sparo, lei come alcuni altri compagni aveva sussultato per la sorpresa e lo spavento -, ma nessuno dei suoi commilitoni si era mosso per difenderlo.
    “Schifose bestie” aveva detto, e un brivido di timore le attraversò la schiena. Perciò, malgrado le fattezze familiari, sotto le tute non c’erano degli esseri umani. Eppure parlavano l’inglese, si muovevano nello stesso modo, anche le loro armi non erano dissimili da quelle dei Marshall. Forse erano degli ibridi: mezzi Veela, Ifrit, Ninfe e Maridi che dopo secoli di soprusi si erano ribellati all’egemonia degli esseri umani, schiacciandoli sotto un gioco ben più duro di quanto non fosse mai avvenuto a parti inverse.
    Il capo dei Custodi – Nestex, l’aveva chiamato il Caporale – ricordò con una certa asprezza ai presenti che se si era arrivati ad un tale punto di non ritorno era a causa della razza umana, ma c’era qualcosa di ambiguo nel suo discorso che la indusse a ritrattare la sua precedente ipotesi. Forse non erano davvero ibridi, non quelli che era abituata a conoscere, se non altro, al che il pensiero le corse all’astigenia. Possibile che si trattasse di qualcosa del genere? Umani o animali mutaforma? Nestex parlava con fare spiccio, scocciato e traboccante di disprezzo, ma c’erano così tanti dettagli nella sua tirata che la O’Connor non sapeva su quali focalizzarsi: di che contratto parlava? Perché loro potevano estrarre la linfa dalle piante se era tossica e gli umani erano costretti a coprirle con le guaine? E la menzione delle bacchette, poi! Poco prima si era riferito all’umanità tutta in quanto colpevole, ciononostante adesso aveva menzionato anche la magia, e di certo non erano stati solo i Dotati, un numero piuttosto ristretto di persone sui sette miliardi che avevano popolato la Terra, a ridurre la propria casa in quello stato. Evidentemente il segreto della comunità magica era stato svelato molto tempo prima, e non si faceva più alcuna distinzione fra maghi e babbani.
    Una risata proruppe tra le fila dei Custodi mentre due di essi venivano mandati ad estrarre la linfa dalla sequoia lacerata, e ancora una volta Sam si domandò cosa ne facessero. La utilizzavano come arma di qualche tipo? O forse per loro era una strana fonte di sostentamento? Ma no, i conti non tornavano: potevano avercela con l’umanità quanto volevano, ma non sarebbero mai nati se non fosse stato proprio per le creature che stavano accusando, senza contare che loro, a differenza degli umani, potevano nutrirsi e beneficiare da quel nuovo scenario inquinato-
    “… non posso averlo pensato davvero”
    Che diavolo le era preso? Non li aveva visti, i Custodi?! La loro non era una semplice uniforme, come nel caso dei Marshall! Era una divisa protettiva completa, che li tutelava da Dio solo sapeva cosa, forse dall’atmosfera stessa; come avrebbero fatto a bere con degli elmi simili?
    Ciò non toglieva che fosse tutto sbagliato. Perché, anziché costringere gli esseri umani in schiavitù, non si erano adoperati insieme per cercare di migliorare le cose? C’erano ben pochi dubbi che l’umanità non gradisse quei nuovi panorami putrescenti e, per quanto avessero compiuto dei passi ben più lunghi delle loro gambe, trascinando la Terra sull’orlo del tracollo, costituivano comunque la maggioranza, una forza lavoro da non sottovalutare se si voleva sperare di cambiare le cose. Ma forse i tempi erano troppo immaturi, forse la catastrofe era avvenuta troppo poco tempo prima e i Custodi ancora non riuscivano a perdonarli.
    Un sospiro impercettibile le scosse il corpo e si strozzò quando la voce di uno dei Custodi intenti ad estrarre la resina avvisò Nestex di un’anomalia. Un brusio di concitata paura si diffuse tra le schiere degli operai, e persino sui visi dei Marshall campeggiò un lampo di timore. Cosa significava “anomalo”? Magari si trattava proprio dell’estrema fragilità del tronco e dei rami, che si erano spezzati subito per la caduta di Jay? Ma non riuscì a congetturare oltre, perché in quel momento avvennero troppe cose contemporaneamente: la linfa tossica che stava sgorgando dall’incisione era abbondante, e le parve quasi che si stesse muovendo contro gravità, creando grosse bolle che andarono a inglobare i due Custodi. La tensione era alle stelle, Sam quasi non respirava, gli occhi sgranati puntati verso l’albero. Tutto lì? I due erano stati incauti ed erano finiti intrappolati nella resina? Eppure la sequoia continuava a rigurgitare litri e litri di quella sostanza viscosa, finché tutta la parte inferiore del tronco non ne venne ricoperta; nel contempo la O’Connor si rese conto che molti degli operai che la circondavano stavano pian piano indietreggiando, arrischiandosi così a venire fucilati dai Custodi, ma questi ultimi erano troppo concentrati su ciò che stava accadendo ai propri commilitoni per badare ad un manipolo di schiavi senza bacchetta.
    Ad un certo punto, quando ormai c’era così tanta linfa che il tronco era quasi raddoppiato di spessore, la pianta cominciò a contorcersi e la capsula fluida in cui erano imprigionati i Custodi a fagocitarli. Sam scattò all’indietro, inorridita ma incapace di fuggire, mentre l’albero veniva compresso, avvolto e riplasmato in qualcosa di totalmente nuovo, dall’aspetto disturbante e sbagliato, alto almeno quattro metri. La corolla ricordava quella delle piante carnivore, ma nessuno di quegli attributi aveva alcunché di vegetale: si trattava di una testa a forma di maschera antigas, come quelle indossate dai Custodi, il tronco un fascio torto di nodi legnosi; persino i rami sembravano braccia.
    Ormai le fila si erano rotte, e fissavano tutti quella creatura come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro. Il cuore di Sam era in tumulto, le tempie che pulsavano impazzite, il cervello confuso e sconvolto mentre cercava di razionalizzare ciò a cui stava assistendo. Quindi era questa l’ibridazione spontanea? Un processo che impiegava secoli, millenni ad avvenire verificatosi nel giro di un minuto scarso? In quella la testa della pianta si mosse, quasi stiracchiandosi, per poi orientarsi verso la folla che stanziava di fronte a lei, compiendo dei movimenti quasi impercettibili che le diedero la netta sensazione che stesse fissando ciascuno dei presenti con immenso scrupolo, lei compresa. I pochi secondi in cui le sue iridi si allacciarono ai buchi neri che la maschera aveva al posto degli occhi la fecero tremare al punto che le ginocchia quasi le cedettero, un nodo alla gola grosso quanto un macigno che le impediva di respirare, di ragionare. Lei non era di Terra II, non aveva commesso i crimini di cui si erano macchiati gli esseri umani del futuro, e allora perché si sentiva così esposta, vulnerabile e colpevole? Era come se sottrarsi al giudizio della pianta senziente fosse fisicamente impossibile: nel momento in cui la sua corolla si focalizzava sul singolo, sfuggirle non era contemplabile. La sua severità, il suo gelido disgusto erano tali che Sam realizzò a scoppio ritardato che la pianta non aveva risparmiato neppure i Custodi, relegandoli allo stesso livello dei Marshall e degli operai: per lei ogni essere umano o ibrido che fosse era un nemico, una creatura che aveva contribuito a intrappolarla e a sfruttarla, anche in fin di vita e marcescente per il cancro dell’inquinamento. C’era però qualcosa di alieno nelle proprie elucubrazioni, una voce interiore che non riusciva a riconoscere come propria mentre rifletteva e cercava di capire cosa fosse successo, finché non sentì uno dei Marshall gridare e coprirsi le orecchie, il fucile caduto a terra, il corpo scosso da fremiti violenti, come se un qualche suono prolungato e fastidioso gli stesse dando il tormento, portandolo rapidamente alla pazzia. E allora capì: era la pianta che stava comunicando silenziosamente con ciascuno di loro, scavando nella coscienza di tutti, accusandoli, allungando le sue radici per soffocare gli usurpatori e vendicare la propria specie.
    Fu allora che un movimento ai margini del suo campo visivo la indusse ad abbassare il capo al livello del suolo, dove una serie di creature di legno, armate e feroci, si stavano facendo largo attraverso il suo tronco: il loro aspetto era abominevole, malsano, ed ogni loro tratto pareva modellato per infondere nel prossimo un senso di orrore. Persino i loro arti erano affilati, pronti a trafiggere e squarciare la razza che li aveva soffocati per millenni, virtualmente o fisicamente. Marshall e Custodi imbracciarono i fucili all’unisono, cominciando a scaricare i proiettili sugli avversari nell’istante in cui questi iniziarono la loro avanzata, e al primo scoppio i ranghi si ruppero definitivamente. Sam venne spintonata, buttata a terra nella calca, mentre la maggior parte degli operai correva verso le gru per metterle in moto e cercare di filarsela di lì il prima possibile. Purtroppo per loro i figli della pianta erano molto più veloci, e nel giro di pochi secondi avevano già lacerato i cingoli e compresso gli abitacoli, riducendo le vetture a scatole metalliche lucide di sangue, cervella e morte.
    Solo a quel punto Sam riuscì a scongelarsi, ad imporre alle proprie membra di muoversi e di portarla via da lì, abbastanza lontano da sollevare la maschera e rigettare qualunque cosa avesse nello stomaco, colazione, bile e nausea, tenendosi a fatica in equilibrio contro uno degli alberi già incellofanati.
    “È tutto reale… è tutto reale…” si ripeteva, incapace di accettarlo mentre imprecava contro Wallace e si domandava cosa mai ci fosse in quel bioma che non lo soddisfacesse appieno, la pianta madre che si torceva ed allungava il tronco all’indietro, ridendo ed esalando al contempo grossi sbuffi neri e ocra come i vapori che ne erano fuoriusciti quando Jay era caduto.
    Doveva andarsene da lì, non c’era modo che potesse riuscire a sedare la rivolta, né lo desiderava. Aveva affrontato di recente con la Professoressa Stevens una lezione sul senso della guerra, e non era in grado di biasimare la pianta per ciò che stava facendo, per ciò che umani e Custodi l’avevano costretta a diventare, trasformando la sua terra in una discarica. Impossibilitata a lasciare il pianeta, a ribellarsi, e non le restava altro che la vendetta, esattamente ciò che aveva spinto anche i Custodi a sfogarsi sugli esseri umani. Ma lei non apparteneva a quell'universo, e nel suo mondo, seppure flebile, c’era ancora una speranza. Sì, ciò che stava vivendo era reale, ma si trattava comunque di una simulazione, di una dimensione creata ad hoc da Wallace, non era il futuro.
    “Mi serve la bacchetta” pensò, avvertendo una stretta al petto per le parole di Nestex: “Senza bacchetta non siete niente”. Per quanto fosse terribile concordare, aveva ragione, in quel momento più che mai.
    Quasi Terra II avesse colto le sue intenzioni, una serie di scritte baluginò nell’interno della sua maschera, così repentinamente che per poco non inciampò in un arbusto. Si trattava di un incantesimo, Hybrida, che a detta di Wallace avrebbe dovuto servirle per uscire da lì. Per un istante corrugò le sopracciglia, irritata – un portale sarebbe stato ben più efficace -, ma in qualche contorto modo quella era pur sempre la sua lezione e, seppur nella maniera meno ortodossa che avesse mai sperimentato, si trovava lì per imparare qualcosa-
    «Aaah-!» urlò, quando un fruscio alle sue spalle le anticipò l’attacco di una delle creature dell’esercito vegetale. Si chinò e rotolò di lato un attimo prima che una serie di pallottole gli crivellasse la faccia, dandole il tempo di strisciare via di lì ed appartarsi dietro un cespuglio. Era il caos più totale, molti dei Custodi e dei Marshall erano già caduti, altri stavano ancora combattendo, e l’unica auto che era riuscita a fare qualche metro lontano dallo spiazzo era stata bloccata e impalata a metà della collina, puntellata da una serie di rami aguzzi dai quali penzolavano vari corpi senza vita, molli come marionette senza fili. Gli operai erano quasi tutti morti, e i pochi superstiti si erano arrampicati in cima alle gru e sulle sequoie più alte per sfuggire alle creature.
    Come avrebbe fatto a trovare il catalizzatore in un macello simile?! Se solo avesse potuto-
    “No, un momento”
    Poteva eccome. Non si era allenata granché con quella capacità, e nel panico generale non ci aveva minimamente pensato, ma quando aveva visitato Uagadou le era stato insegnato a compiere le magie più semplici senza bacchetta, a sfruttare il suo intero corpo come catalizzatore, come faceva con l’Aura. Era la situazione peggiore in cui potesse tentare una simile impresa, ben lungi dall’avere la calma necessaria per visualizzare ed elaborare, ma forse era proprio quella la circostanza migliore per testarlo: non c’erano altro che l’immediatezza, l’urgenza e la sensazione di pericolo, gli unici ingredienti che contassero quando bisognava ricorrere al proprio potere per salvarsi la vita.
    “Accio bacchetta!” pensò per la prima volta in vita sua con tutta l’intensità di cui era capace e i battiti accelerati, costringendosi a focalizzarsi per qualche istante solo e soltanto sul proprio noce, tarpando gli altri sensi per non lasciarsi distrarre dai nemici che si stavano distruggendo a vicenda attorno a lei. Wallace le aveva assicurato che non sarebbe stata davvero in pericolo mortale, ma non aveva intenzione di trascorrere i suoi ultimi minuti in quel bioma come un’ameba terrorizzata. E poi, se non avesse recuperato la bacchetta sarebbe stata spacciata comunque.
    Attese, il cuore in gola, che il suo legno la raggiungesse, la mancina che vibrava, e quando alla fine un ramoscello sfrondato le sfrecciò accanto costringendola ad abbassarsi per non beccarselo dritto sulla maschera, protese il braccio e lo intercettò a mezz’aria. Subito si sentì più calma, rassicurata e protetta, un tutt’uno con la bacchetta che aveva impiegato anni a conoscere e ad accettare, tormentata dalla sua natura e dai suoi nuclei. Il noce sfrigolava, impaziente di essere messo alla prova, e Sam puntò subito gli occhi su ciò che la circondava, cercando un elemento e un essere da ibridare per potersela filare da lì. Cosa poteva sfruttare? C’erano metallo, cuoio, vetro, legno, gomma, plastica… e poi vide i fucili, e un’idea prese forma nella sua mente.
    “Sì, può funzionare!”
    Con una sfilza di Schiantesimi e Pastoie, riuscì a farsi strada nel campo di battaglia finché non raggiunse il cadavere di uno dei Marshall, gli occhi vitrei riversi all’insù che riflettevano il cielo ormai oscurato dalla nube tossica emessa dalle risate distorte della pianta madre. Stringeva ancora la sua arma, e Sam gliela sfilò di mano con urgenza, cercando di non guardare il suo ormai ex-possessore troppo a lungo. Avrebbe potuto Appellarla dal suo rifugio, ma ne aveva abbastanza di rimanere nascosta e il suo corpo aveva bisogno di agire, di percepire appieno ciò che la circondava, di vivere quella battaglia irripetibile e farne tesoro. Ad una certa, durante la sua corsa verso un arbusto di rovi particolarmente pungenti ancora privo di guaina, uno degli esseri lignei le si lanciò letteralmente addosso, piantandola a terra e tenendola ferma sotto di sé mentre un braccio acuminato si preparava a trafiggerla.
    «OBORTUSgridò senza neanche pensarci, il fiato che per un attimo le appannò il visore mentre uno spuntone di roccia si impennava dal terreno passando dal varco che aveva lasciato tenendo le gambe divaricate ed infilzava la creatura, tenendola sospesa a mezz’aria come uno spiedino. Sfrecciò via prima che l’essere potesse liberarsi e, giunta ansante nei pressi del cespuglio di spine, vi depositò accanto il fucile. Il suo cervello lavorava febbrile, unificando le forme del vegetale e del costrutto umano per generare una chimera impura: se tutto avesse funzionato per il verso giusto, il DNA del cespuglio sarebbe stato sottoposto ad una serie di pesanti mutazioni, fondendosi con gli atomi di ferro e carbonio dell’arma. I suoi rami si sarebbero irrobustiti, trasformandosi in una serie di scaglie simili a quelle delle armature tecnologiche dei film di fantascienza che guardava suo fratello, il fusto si sarebbe ispessito e stiracchiato come una sorta di enorme fil di ferro, e le gemme che le spine avrebbero dovuto proteggere, avvizzite e secche, si sarebbero solidificate e compattate, pronte ad essere espulse dal corpo principale a mo’ di proiettili. Sarebbe stata una chimera dal corpo legnoso, con lo scheletro tenero come quello di un germoglio per favorirne la libertà di movimento e gli arti protetti da una guaina di acciaio impenetrabile, pronta a far fuoco per difenderla.
    Il suo catalizzatore fece quindi dal fucile alla creatura e ancora sul fucile con un ampio ed accurato movimento, dopo il quale pronunciò «Hybrida»
    Quando una nube di fumo giallo esplose dai due corpi, Sam perse l’equilibrio e cadde per terra dalla sua posizione di squat giapponese in cui si era accovacciata, temendo che anche l’arbusto, seguendo l’esempio della pianta madre, avesse deciso di ribellarsi, di approfittare del suo input per unirsi alla guerra sfruttando le armi che lei gli aveva fornito lei stessa. Nel chiasso della battaglia, mentre gli eserciti di legno continuavano ad uscire dal ventre della pianta senziente decimando Marshall e Custodi, la O’Connor udì uno schianto sordo e si accorse che la nebbiolina giallognola si stava dissipando, rivelando, oltre gli ultimi sbuffi di fumo, la creatura che aveva cercato di generare.
    Ce l’aveva fatta.
    «Andiamo!» incoraggiò allora il cespuglio metallico che, quasi l’avesse sentita davvero (e a quel punto non se ne sarebbe neppure sorpresa) si alzò in piedi, emergendo con le radici ferree dal suolo quasi fosse una piovra intenta ad uscire da un bagno di fango. Le sue gambe funzionavano come dei cingoli, e quando la ragazza si mise a correre l’arbusto le fu subito dietro con un lieve clangore. Quel nuovo suono attirò l’attenzione di entrambe le fazioni e, se umani ed ibridi colsero quell’attimo di distrazione per attaccare i vegetali, questi ultimi si lanciarono subito al suo inseguimento. Sam non osava guardarsi alle spalle, castando ogni incantesimo offensivo che le venisse in mente alla cieca, ma ad un certo punto la tentazione fu troppa e non riuscì più a trattenere la curiosità: il cespuglio aveva proteso i suoi fluidi rami come i tentacoli delle Seppie, scagliando boccioli d’acciaio contro i loro avversari a tutto spiano, un mitra vegetale al suo seguito che non lasciava superstiti. In quella, la voce della pianta madre tornò a farsi sentire: Sam avvertiva il suo odio per l’oltraggio che le era stato arrecato, aveva creduto che lei fosse diversa, più innocente, e invece si era unita ai suoi nemici, facendo del suo meglio per distruggere i suoi figli.
    “Io non appartengo a questo mondo!” avrebbe voluto risponderle, mentre correva a perdifiato giù per la collina. “Non ho mai avuto niente a che fare con tutto ciò!”, ma la pianta non la sentiva, e ben presto la sua progenie si fece ancora più numerosa. La Tassorosso era abituata a correre, ma non altrettanto a combattere, e quando il fiato cominciò a mancarle ed il suo passo a farsi più strascicato, deviò verso la boscaglia e si nascose dietro un tronco, lasciando il cespuglio di vedetta. L’arbusto, notò mentre ansimava, aveva affondato le radici metalliche nel terreno, scoprendone le punte ed i più piccoli capillari per prelevarne nutrimento: evidentemente anche la sua linfa si stava esaurendo, e ne aveva bisogno per plasmare nuovi proiettili.
    Quando ripresero la marcia, allontanandosi verso la zona da cui erano arrivate le gru e le auto dei Custodi e dove, presumeva, avrebbe trovato un agglomerato urbano dove potesse chiedere aiuto, non era trascorso neppure un minuto, eppure in quel breve lasso di tempo l’esercito senziente si era moltiplicato al punto da creare un semicerchio che avanzava verso di lei da tre lati, alcuni attaccandola di fronte, altri dal fianco, ed altri ancora che le tendevano agguati, mimetizzandosi con gli alberi prima di pioverle addosso da ogni parte. Il fragore degli incantesimi, dei colpi dei vegetoidi e dei bulbi metallici del cespuglio era assordante, e per quanto lei e la sua spalla spinosa stessero facendo del proprio meglio per arrestare l’avanzata, i figli della pianta madre cominciavano ad avere la meglio, un esercito disordinato e imbattibile che neppure Marshall e Custodi, dalla retroguardia, potevano abbattere. Per quanti ne schiantasse, disintegrasse e immobilizzasse, altri prendevano subito il loro posto, finché non si ritrovarono spalle al muro, il cespuglio esausto e impossibilitato ad estrarre nuovo nutrimento dal terreno. Sam però non aveva alcuna intenzione di arrendersi, celandosi in parte dietro all’arbusto di metallo mentre si ostinava a lottare. Sentiva la gola riarsa dietro la maschera, il visore appannato dai continui ansimi, le pupille dilatate nel tentativo di scorgere le sagome avversarie nel buio che era calato sul mondo, i muscoli che bruciavano, la spalla sinistra che le doleva per i continui movimenti che le fatture le richiedevano, la pelle piena di lividi sotto le protezioni della tuta lacerata in vari punti, e non riusciva ad accettare di venire sconfitta così. Come avrebbe fatto a trovare la via d’uscita se l’avessero sopraffatta? Forse non l’avrebbero uccisa come avevano fatto con gli altri, ma dubitava fortemente che avessero delle prigioni in cui farla marcire-
    All’improvviso fu come se la terra le venisse a mancare da sotto i piedi, e il suo corpo, che fino ad un momento prima di staccarsene era rimasto appoggiato al tronco di un albero, precipitò all’indietro. Con il cranio sbatté contro l’arcata superiore di quello che, dedusse, era una cavità nel fusto della pianta stessa, forse la vecchia tana di un qualche animale, eppure nel buco non c’era alcuna fine, nessun piano d’appoggio, nessuno strato di humus. Era come se l’albero si ergesse sul nulla, e più cadeva e urlava in quel pozzo umido, buio e tossico, più le striature ocra fosforescente della linfa dell’esemplare che la stava inghiottendo si facevano rade, il clangore dello scontro sempre più remoto e ovattato…
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    Edited by Kasra; - 22/5/2021, 19:34
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    Samantha Jensen O’Connor
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    orse era solo una sua impressione, ma a differenza del consueto sarcasmo con cui lei e Audrey si approcciavano l’una all’altra da ormai diversi anni a quella parte, più per abitudine che non per effettivo disprezzo, Aimee non aveva ribattuto con la leggerezza che usavano lei ed Eveline nei confronti della Serpeverde, il tono colmo di una sincera stizza. Sam strinse le labbra, dispiaciuta e solidale con la Corvonero, conscia di come ci si sentisse a venire punzecchiati dalla Hastings senza essere entrati in confidenza con lei, e sperò che si rassicurasse pensando che quello era l’ultimo semestre che avrebbero trascorso insieme.

    Durante il tragitto, lei e le compagne esposero le proprie riflessioni in merito alla Medimagia, ciascuna apportando un singolare contributo alla discussione. La O’Connor ascoltò con attenzione gli interventi delle altre due, annuendo tra sé e sé ogni volta che rimarcavano un punto essenziale che condivideva o su cui non aveva riflettuto abbastanza; anche Frederiksen ne parve entusiasta, sicuro nella sua scelta di averle designate come le studentesse più brillanti del settimo anno.
    Quando la Hastings finì di parlare, la Cercatrice fece un ultimo appunto, stimolata dalle osservazioni della sua miglior rivale.
    «Audrey ha detto che i Medimaghi non raggiungono, per formazione, lo stesso grado di competenze dei babbani quando si tratta di anatomia, ma non sono del tutto d’accordo. Sì, Trasfigurazione non è obbligatoria per entrare in una facoltà medica, ma è la branca in cui più di ogni altra si studiano il corpo umano e animale, e persino la materia stessa. Se non si conoscesse alla perfezione la struttura di un essere umano, non si sarebbe mai in grado di Evocarne uno, né si riuscirebbe a diventare Animagi senza conoscere a fondo la struttura della creatura in cui ci si trasformerà. Forse dovrebbero inserire anche Trasfigurazione tra le materie previste per Madimedicina, non trova?»
    Al termine della conversazione Blaise fece loro cenno di avvicinarsi e Sam, con un velo di imbarazzo che si sforzò di sopprimere, si strinse forte all’avambraccio del docente per non scivolare via durante la Smaterializzazione.

    Il quartetto riapparve sul terrazzo del San Mungo, il cielo plumbeo anche in Inghilterra.
    La O’Connor non impiegò molto a riprendersi, abituata a spostarsi in quel modo da più di un anno, ma attese che anche le altre fossero pronte prima di seguire l’insegnante verso la scala che conduceva alla sala da tè del quinto piano. Era un ambiente familiare e non troppo affollato, anche se alcuni dei maghi e streghe presenti avevano un’espressione mesta e preoccupata. Sam si morse le labbra a disagio, sperando che i loro parenti e amici guarissero presto, procedendo in silenzio verso un’aula conferenze che non aveva mai visitato prima. Era asettica, dai colori pastello, e dominata nel mezzo da un enorme tavolo e numerose sedie.
    Sembrava avrebbero dovuto attendere lì l’arrivo del personale preposto a quello scambio, così, mentre l’infermiera che li stava aspettando andava a chiamare chi di competenza senza perdersi in chiacchiere, Frederiksen si mise ad enunciare la storia dell’ospedale e la diversificazione dei reparti. La Tassorosso trovò curioso che fosse vecchio di almeno quattrocento anni quando i magazzini Purge&Dowse Ltd. dovevano essere molto più recenti, ma suppose che nel corso del tempo la facciata fosse stata modificata a seconda delle esigenze. Trovava inoltre ammirevole che alcuni dei direttori del San Mungo fossero stati anche Presidi di Hogwarts, come se ci fosse sempre qualcosa da fare per lasciare il proprio segno nella comunità. Di certo Dilys Derwent aveva guidato la scuola secondo i principi della compassione e dell’aiuto reciproco… chissà che atmosfera c’era stata al castello quando aveva insegnato lì.
    Mentre rifletteva, un ticchettio di passi li raggiunse dal corridoio, e da lì quattro persone fecero il loro ingresso. Si trattava di Guaritori esperti, un uomo e tre donne che le trasmisero subito una curiosa sensazione di sicurezza, eccetto la strega dai capelli ramati che portava gioielli al collo e ai lobi delle orecchie. Per Tosca, era un ospedale quello, non una passerella! Blaise li salutò tutti calorosamente, dando a Sam la conferma definitiva che si trattava di un progetto annuale e che non nutrisse una grande ammirazione nei confronti di Duvall. Fu sufficiente quella sottile frecciatina per restituirle il buonumore perso alla vista della Medimaga troppo agghindata per la sua professione, la mente distesa e il mal di testa un po’ attenuato.
    Il loro compito, quella mattina, sarebbe stato assistere uno degli infermieri nel rispettivo reparto, cercando di non intralciarli e di essere d’aiuto il più possibile durante il giro di controllo. Sam avvertì subito una certa agitazione farsi strada nel suo petto, i battiti accelerati per la tensione: lavorare in ospedale non era mai stata la sua aspirazione, e più che aver timore di ciò che avrebbe potuto vedere, detestava essere certa che avrebbe provato pena per chi era ricoverato. Era una sensazione pruriginosa e irritante, che le dava l’impressione di ergersi al di sopra di chi era finito sulla barella. Qualunque parola di conforto avesse detto al mago o alla strega in degenza sarebbe stato pregno di ipocrisia, per quanto confortante, e per qualche istante si ritrovò a rimpiangere di essere stata scelta da Blaise per quel seminario sul campo.
    Ma no, che diavolo stava pensando.
    Avrebbe solo dovuto ignorare quel fastidio per le successive due ore e dispensare carinerie e incantesimi di primo soccorso, sperando che il responsabile che avrebbe seguito le avrebbe insegnato qualche nuova formula. A quel punto, valutando i propri interessi personali e i quattro Guaritori, optò per seguire il signor Sloan, che si occupava del primo piano. Dopo quasi sette anni di studio delle Creature Magiche reputava di poter essere abbastanza utile lì, dove si curavano i morsi e le punture degli animali, così comunicò la propria decisione a Frederiksen e salutò le compagne.
    «Mi chiamo Samantha O’Connor» si presentò al Guaritore, senza porgergli la mano. Probabilmente aveva i palmi sterilizzati e non voleva sporcarli con i suoi.
    “Giusto” si disse, provvedendo subito ad evocare un paio di guanti in lattice ed infilandoseli alla svelta. «Sarà un onore lavorare con lei, Mr. Sloan». Già che c’era, lasciò anche il proprio mantello e la sciarpa nella sala d’attesa per avere maggiore libertà di movimento, rimanendo solo con il maglioncino e la gonna della divisa.
    Il Medimago le sorrise e le fece cenno di precederlo, guidandola giù per quattro rampe di scale finché non si ritrovarono alla grossa entrata del primo piano. Al di là si apriva un lungo corridoio con cinque padiglioni differenti, ciascuno riservato alla classificazione della creatura che aveva causato la ferita.
    «Hai mai dovuto soccorrere un mago o una strega in seguito all’attacco di qualche creatura?»
    «No»
    rispose la Tassorosso dopo qualche secondo. «Abbiamo imparato a prenderci cura delle creature, e nei rari casi in cui io o i miei compagni ci siamo feriti a lezione, non era mai per colpa di un animale»
    «Non preoccuparti, vedrai che non è così difficile. La cosa importante è tenere occhi e orecchie bene aperti per cogliere i sintomi. E non sottovalutare nulla di ciò che ti dice il paziente, per quanto possa sembrare insignificante: a volte capita di avere a che fare con effetti collaterali insoliti»

    Sam annuì tesa, cercando di concentrarsi sull’espressione gioviale e affabile sul volto di Sloan per trovare un po’ di calma. Era il classico uomo che faceva sognare stuole di casalinghe adoranti durante gli episodi di una qualche sit-com ambientata in ospedale, ma Sam era interessata solo a ciò che avrebbe potuto apprendere da lui, e si impose di mostrare a propria volta un viso altrettanto gentile.
    «I reparti X e XX spesso fungono da ale di primo soccorso, essendo le creature coinvolte piuttosto innocue» spiegò Sloan. «Non sempre però il mago che vi ha avuto a che fare sa come reagire, perciò preferiscono raggiungerci qui in clinica per ricevere il giusto trattamento. Ecco, da questa parte».
    Erano adesso nel secondo settore, dove un uomo si stava reggendo il braccio e le mani con aria sofferente.
    «Buongiorno, sono il Guaritore Sloan» salutò subito il Medimago, radioso, avvicinandosi al paziente.
    «Buongiorno» esalò tremante il mago.
    «Mi racconti cos’è successo – vieni, Samantha»
    La Tassorosso si affrettò ad accostarsi alla sedia, mentre il signore scopriva i dorsi delle mani e l’avambraccio destro.
    “Asticelli?” pensò Sam, notando i graffi lunghi e sottili sulla cute.
    «Asticelli» sospirò l’uomo. «Ci sono diversi alberi da bacchetta vicino a casa mia; stavo facendo una passeggiata nel bosco quando sono inciampato e, per reggermi, ho dovuto aggrapparmi ad un paio di rami». Una risatina nervosa. «Purtroppo si sono spezzati» aggiunse, un velo di colpevolezza nella sua voce, come recriminandosi per il suo girovita ed il suo eccessivo peso «e tre Asticelli mi sono saltati addosso. In genere avrei saputo difendermi, ma mi hanno colto di sorpresa e ferito il braccio dominante, quindi non riuscivo a impugnare la bacchetta. Sono venuto qui appena mi hanno lasciato, non volevo far loro del male»
    «Molto nobile da parte sua»
    approvò Sloan. «Ma non si preoccupi, non è niente di grave. Samantha?»
    «Sì?»
    reagì subito la Cercatrice, ancora soddisfatta di aver indovinato.
    «Ti prendi tu cura del signore mentre io compilo la sua cartella clinica?»
    «Sì, certo!»
    accettò subito lei, estraendo il catalizzatore e sorridendo all’uomo, che si presentò come Gummfats. Era una procedura davvero elementare, che non le richiese più di un paio di minuti. Prima di tutto deterse i vari tagli con una serie di delicati «Duco» per aspirare ogni traccia di sporcizia e residui di corteccia dal derma del paziente. Una volta sterilizzata l’area, seguì la lunghezza dei tagli con la bacchetta sussurrando diverse volte «Epismendo» finché, al posto delle strisce rossastre, non rimasero solo delle scie perlacee.
    «Ferula» concluse poi, stendendo le bende sulle braccia e i palmi del mago. «Mi dica se stringono troppo»
    «No, grazie, va benissimo così»
    le assicurò lui, il volto più calmo. «Sei una tirocinante?»
    «Più o meno. Io e le mie compagne stiamo facendo una lezione speciale di Incantesimi»
    «Aah, sì, ricordo! Devi essere un’ottima studentessa, all’epoca il Professor Vitious non mi aveva lasciato venire»
    rise Gummfats.
    «Direi che siamo a posto così» intervenne Sloan, appuntandosi il recapito del paziente per qualsiasi evenienza. «Se dovesse avvertire qualche fastidio, non esiti a tornare»
    «Ma no, si figuri, era una ferita da niente. Grazie ancora a entrambi, arrivederci!»
    «Arrivederci!»
    «Ti senti un po’ più sicura, ora?»
    chiese il Guaritore quando l’uomo ebbe lasciato il reparto, sorprendendo l’alunna e prendendola in contropiede.
    «Io- ecco, sì, in realtà» ammise. «Grazie»
    «Spesso sapere di doversi approcciare alla malattia crea disagio, specialmente in chi non è abituato. Piccole operazioni di questo tipo, se completate con successo, aiutano a distendere i nervi. Vogliamo proseguire?»

    Sam annuì, grata, e seguì Sloan verso un altro settore. Stavolta, anziché piccole sale d’accoglienza, c’erano veri e propri letti. Un mago e una strega condividevano una stanza nell’ala XXX, entrambi a mezzo metro dai loro materassi con un mazzo di carte da Sparaschiocco sparse per la camera.
    «Signor Wilson, signora Wilson»
    «Dottor Sloan, buongiorno! E Buongiorno anche a lei, signorina»
    trillò la donna in un forte accento australiano.
    «Salve» salutò Sam, osservando curiosa la coppia.
    «Vedo che siete scesi di qualche altro centimetro, molto bene» commentò Sloan.
    «Sì, anche se Connie giura che non è vero»
    «Beh, verifichiamo subito. Samantha, mi aiuti a prendere le misure?»
    «Sissignore»

    Insieme, lei e il Medimago recuperarono un paio di metri a nastro incantati e calcolarono a che altezza stavano fluttuando i due, appuntando poi i risultati nella cartella clinica.
    «Billywig, Mr. Sloan?»
    «Sì»
    confermò lui ridacchiando. «I signori Wilson importano Billywig dall’Australia per i ricercatori locali e per i produttori di Api Frizzole, ma l’ultimo sciame era parecchio agitato dopo il trasporto e li hanno punti diverse volte»
    «Oddio»
    esclamò lei. «Non c’è il rischio di finire per levitare… per sempre?»
    «Sì, ma fortunatamente non è stato questo il caso. Sono due esperti del mestiere, assumono sempre degli antidoti preventivi prima di aprire gli alveari, ma erano comunque parecchi pungiglioni»
    «Capisco... Chi sta vincendo?»
    «Lei, ovviamente»
    sospirò il signor Wilson, quando la moglie gli soffiò l’ultima coppia di carte da sotto il naso.
    «Quattro a zero per me, caro»
    «Non sono proprio portato per queste cose»
    sospirò il marito. «Datemi una scacchiera e vi faccio vedere io, ma con le carte… »
    «Vedrà che la prossima mano andrà meglio»
    «Sei gentile, tesoro, ma purtroppo non nutro molte speranze»
    «Beh, le auguro comunque buona fortuna»

    Usciti dalla stanza, Sloan la guidò al padiglione “Magical Bugs”, dov’erano ricoverati i pazienti, tra gli altri, affetti dalla Malattia da Svanimento. Sam la conosceva solo per sentito dire, e rimase piuttosto sconcertata quando vide che gli arti dei degenti, nelle forme più gravi, parevano fluttuare nel nulla.
    «In realtà le parti che non vedi ci sono ancora, diventano solo invisibili agli occhi. È un’ala sperimentale: ancora non sappiamo se ci sia un modo per far regredire la malattia, così allo stesso tempo facciamo dei test e offriamo corsi di riabilitazione. Spesso si dà per scontata l’importanza della vista in rapporto al proprio corpo, e non è semplice imparare ad interagire con gli oggetti circostanti senza vedere dove sono i propri piedi o le mani. Certo, indossare guanti e scarpe aiuta, ma è un espediente solo temporaneo»
    Sam si guardò i palmi rivestiti di lattice e li strinse, un po’ a disagio. Le bastava immaginarlo per capire quanto Sloan avesse ragione.
    Con l’avanzare della mattinata, il Medimago le mostrò settori sempre più impegnativi. C’era una camera riservata ai degenti punti dai Velenotteri, ai quali dovettero somministrare qualche goccia di pozione Remember It, e altre sale in cui i pazienti mostravano fasciature più estese. Alcuni pazienti erano stati morsi da degli Edax Bacteriorum, non particolarmente pericolosi ma in grado di provocare pruriti insistenti; altri, nei padiglioni XXXX e XXXXX, che avevano avuto incontri ravvicinati con Erumpent, Fiammagranghi e draghi. Ben presto la bolla di buonumore che Sam era riuscita a mantenere fino a quel momento scoppiò, imponendosi di non permettere alle sue dita di tremare mentre applicava Dittamo ed essenza di Purvincolo sulle orrende bruciature dei pazienti. In molti casi la pelle si era sciolta in ammassi che la ragazza faticava a guardare, le palpebre calanti, il respiro corto. Alcuni avevano persino perso degli arti o parte di essi per le esplosioni subite. Sloan, nel mentre, stava mormorando una sorta di cantilena che, fattasi più accosta, riconobbe come "Vulnera Sanentur". Le venne illustrato che si trattava di un incanto curativo molto potente, e che pertanto prosciugava molte delle energie di chi lo eseguiva. I pazienti lì presenti erano stabili, ma necessitavano di cicli di infusione per guarire del tutto.
    C’era poi un settore di massima emergenza, dove venivano portati coloro che erano stati appena attaccati da creature il cui veleno agiva rapidamente. Fortunatamente quelle stanze non erano troppo affollate, e Sloan colse l’occasione di presentarle una strega che era stata contagiata dal veleno di Scáthwing. La donna sentiva molta sonnolenza, ma l’antidoto le era stato somministrato in tempo e ora dovevano solo aspettare che il suo corpo eliminasse ogni tossina residua dal sangue.
    «Il veleno di Scáthwing uccide lentamente nel corso di due giorni senza dare sintomi particolari, eccetto una maggiore sonnolenza e spossatezza nelle ore notturne. La signora Collins si è salvata solo perché certa di aver avuto a che fare con quella creatura, o in questo momento non si troverebbe neppure qui»
    Sam annuì, le iridi fisse sul volto pallido della strega. Ci voleva una grande forza interiore per non andare nel panico e recarsi in ospedale, ma soprattutto era stata fortunata: non tutti conoscevano gli Scáthwing, essendo una specie che stava venendo studiata solo negli anni più recenti. Se non ne fosse stata al corrente, sarebbe morta nel sonno senza neanche accorgersene.
    «C’è ancora un’ala che voglio mostrarti prima di concludere il giro» fece Sloan quando ebbero lasciato l’ultima camera. «Alcuni pazienti si presentano qui in clinica con morsi e punture di creature che non riusciamo a identificare neanche con l'Incanto Diagnostico, con effetti difficilmente riconducibili a creature di nostra conoscenza. Uno dei casi più peculiari è questo ragazzo – ciao, Howard»
    «Sloan»
    rispose il Medimago più anziano, intendo a leggere la cartella del giovane che, sdraiato a letto, stringeva con forza la sua bacchetta. «Una studentessa del Professor Frederiksen?»
    «Sì, doc. Samantha O’Connor. Samantha, ti presento il Guaritore Philip Howard, che si occupa con un team di specialisti dei degenti più insoliti»
    «Molto piacere»
    . Qualche secondo di silenzio. «Ciao» aggiunse poi, salutando il ragazzo accomodato sulla sedia. Sembrava perfettamente normale, il colorito sano, gli abiti casual. Non doveva avere più di tredici anni, eppure la sua fronte era aggrottata in un’espressione accigliata. Le rivolse solo un cenno col mento, continuando a fissare il catalizzatore come se volesse fargli prendere fuoco con la sola forza del pensiero.
    «Cole, esco un attimo a parlare con il Guaritore Sloan, va bene? Torno subito»
    Il giovane annuì, l’ardore che non accennava ad abbandonare le sue iridi, e il terzetto lo lasciò solo.
    «Cole è stato morso da una creatura sconosciuta circa un anno e mezzo fa». Sam avvertì il cuore sprofondarle nello stomaco. Quasi due anni chiuso in un ospedale?! Lei sarebbe impazzita. «Da allora la sua magia ha cominciato a dargli problemi, come se l’avesse pizzicato un dispositivo di hackeraggio magico. A volte passano settimane prima che riesca a formulare un incantesimo, altre il suo potere esplode fuori controllo, come accade per gli Obscuriali, ma in forma molto più ristretta». “Va da sé che in queste condizioni non può frequentare Hogwarts come chiunque altro alla sua età”, sottintendeva Howard. Di qualunque bestiola si trattasse, comunque, Sam sperava di non incrociarla mai. Non sapeva cos’avrebbe potuto fare se avesse scoperto che i suoi poteri stavano svanendo, non voleva neanche pensarci.
    «È un morbo estremamente raro, ci sono forse solo altri due pazienti che ne sono affetti, una in Cina e l’altro a Città del Messico, ma è possibile che ne esistano altri di cui non siamo a conoscenza, magari reclusi dalle famiglie a causa della loro condizione» continuò Howard.
    «Ha fatto qualche progresso?»
    Howard sospirò. «Purtroppo no. Passa sempre più tempo tra una manifestazione e l’altra, e si stanno facendo sempre meno aggressive, più flebili. Se continua così, l’anno prossimo potrebbe ritrovarsi del tutto senza poteri».
    Il groppo che Sam sentiva in gola quasi la strozzò. Cole le sembrava così giovane, così forte d’animo… come avrebbe potuto accettare una cosa del genere?
    «Non c’è davvero niente che si possa fare? Magari è solo la sua bacchetta che non lo riconosce più… »
    Howard le sorrise mesto. «Purtroppo il signor Vanderwood in persona è venuto diverse volte per fornirgli nuovi catalizzatori e verificarne l’integrità, ma non è cambiato nulla»
    «B-beh… »
    annaspò Sam, cercando disperatamente una soluzione. «Se davvero l’andamento è questo e non c’è modo di invertirlo, si potrebbe comunque pensare di insegnargli l’alchimia, no? È una disciplina che sfrutta l’energia vitale, non il potere magico, se riuscisse a impararla potrebbe compiere magie anche senza bacchetta, anche se sarà molto impegnativo»
    Le sopracciglia cespugliose di Howard, da corrugate che erano, si inarcarono con gentile stupore.
    «In effetti alcuni di noi avevano già avanzato una simile proposta, ma la maggioranza si era opposta. Malgrado questa via d’uscita, Cole potrebbe darsi per vinto con la magia e non potremmo più avere dati affidabili per monitorare la degenerazione del morbo»
    «Non lo farà»
    ribatté subito Sam, raddrizzando la schiena. «Sicuramente a favore ci dev’essere stato un Magipsicologo, perché Cole non mi sembra affatto quel tipo di persona, questo è evidente. Sono certa che si impegnerebbe sia con la magia, sia con l’alchimia. Anzi, avere un’alternativa potrebbe motivarlo a impegnarsi ancora di più, se fosse successo a me vorrei avere qualcosa di concreto in cui sperare»
    Howard e Sloan la studiarono in silenzio per lunghi attimi, l’uno serio, l’altro in qualche modo orgoglioso. Il più anziano le sembrava colpito, e forse era stato uno di quelli che avevano votato per il no, ma sperava che il suo intervento potesse fargli cambiare idea.
    «L’opinione di un suo coetaneo in effetti ci mancava. Ci penseremo su, miss O’Connor»
    «Grazie»
    . Il sorriso che rivolse a Howard fu debole ma sincero.
    «A lei. Ora, se volete scusarmi, torno da Cole. Voi proseguite pure con il vostro giro»
    «In realtà, se a Samantha e Cole va bene, la lascerei qui per qualche minuto. Devo controllare quel reparto e penso sia il caso di andarci da solo»

    Howard annuì. «Sì, certo. Va’ pure, Sloan, al tuo ritorno ci troverai qui»
    Sloan fece un cenno col capo e si allontanò verso l’ultima porta del corridoio, seguito dallo sguardo della Tassorosso. «Signor Howard, se posso chiedere… chi c’è in quel reparto?»
    L’uomo ponderò per qualche momento se risponderle o meno. Poi sospirò mesto.
    «I reduci dagli attacchi dei Wallcreeper» disse solo, senza aggiungere altro.
    Purtroppo per lui non era la prima volta che Sam udiva quel nome, e al sentirlo di nuovo rabbrividì, le pupille dilatate. Là dentro dovevano esserci brandelli di corpi in fin di vita e forse qualche superstite che aveva perso il senno, uno scenario che le diede il voltastomaco e che fu grata a Sloan di non averle mostrato. Una parte di lei si domandò se avesse senso vivere così, se non fosse più compassionevole porre fine alle sofferenze di quelle persone, ma non spettava a lei decidere. Si augurava solo che qualche Legilimens esperto riuscisse a superare gli strati di orrore che offuscavano loro la mente per mettersi in contatto con la loro volontà.
    Espirò con pesantezza.
    «Su, entriamo. A Cole farà piacere parlare con qualcuno. Puoi fargli provare la tua bacchetta, se vuoi»
    Sam fece su e giù col capo, amareggiata, prima di aggiustare la propria espressione e seguire Howard verso la stanza del giovane. «Volentieri»

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    Samantha Jensen O’Connor
    18 Y.O.| VII year | HUFFLEPUFF HEADGIRL, CAPTAIN & SEEKER | voice | ϟ
    B

    laise parve non risentire della sua intromissione. Per tutto il tempo la sua espressione rimase rilassata, e quando Sam fu tornata al proprio posto si accorse che l’Auror stava adottando il medesimo approccio con tutti gli studenti, segno di una fiducia che lei probabilmente non avrebbe mai concesso. Chissà, forse si sentiva così tranquillo anche per la presenza della Carter che, accanto a lui, osservava con attenzione l’esecuzione della prova continuando a giocherellare con la collana che portava al collo. Un muscolo si contrasse all’angolo della bocca della Tassorosso, lievemente divertita nel constatare che Caroline fosse più tesa della vittima di quell’esercizio.
    Quando ebbero tutti terminato, la supplente ribadì che erano stati avvantaggiati dal fatto che Frederiksen avesse dato loro accesso alle sue sinapsi, per poi far apparire un recipiente in pietra solcato da svariati simboli. Subito la O’Connor si drizzò sulla sedia, gli occhi appena più dilatati per lo stupore.
    “Un pensatoio?”
    Incuriosita, ascoltò la docente spiegare loro le caratteristiche del bacile e la consegna della prova seguente, aggrottando le sopracciglia quando la donna ebbe finito di parlare. Da ciò che sapeva non si poteva interagire con i ricordi, solo visitarli, quindi come avrebbero fatto a…
    “Oh”
    Non doveva farlo dall’interno, ma rimuovere la parte traumatica della vicenda manipolando il filamento una volta tornata in aula. Si domandò con quale criterio avrebbe selezionato la memoria su cui andare ad agire tra la miriade che vorticava nel fumoso mare argenteo, ma alla fine scelse di affidarsi al caso. Non sapendo se più persone potessero affacciarsi allo stesso pensatoio e non volendo creare eventuali problemi, lasciò che prima Edward e poi Matthew entrassero e uscissero dal bacile prima di accostarvisi a sua volta e, dopo essersi scambiata un’occhiata con l’insegnante per avere la conferma di poter procedere, vi immerse la testa.
    La sensazione fu immediata, spiacevole, come se le avessero improvvisamente sottratto la terra da sotto i piedi e, al contempo, fosse stata attraversata da un fantasma. Si sentì precipitare, gelida, e d’istinto gridò per lo spavento, facendo vorticare le braccia nel disperato, insensato tentativo di aggrapparsi a qualcosa. Era stranissimo: a quell’altezza e a quella velocità avrebbe dovuto avvertire il vento e la pressione dell’aria, eppure era come se ogni legge fisica lì non valesse. Non per lei, almeno.
    Ad un tratto lo sfondo asettico in cui stava precipitando la inghiottì e risputò in un ambiente ristretto e quasi buio, se messo a confronto con quella specie di cielo nebuloso in cui si era ritrovata appena arrivata. Era una scatola compressa, con uno specchio su una delle quattro pareti, delle calde luci al neon sul soffitto, una pulsantiera da una parte e delle spesse porte a scorrimento dall’altra. Un ascensore, occupato da una singola persona: un ragazzo che doveva avere un paio di anni meno di lei, il viso sereno mentre canticchiava un motivetto sottovoce e giocherellava con un mazzo di chiavi. Sembrava impaziente, entusiasta per qualsiasi cosa stesse andando a fare.
    Per i primi attimi Sam si limitò a guardarlo, studiandone l’atteggiamento ed arrischiandosi a toccarlo e salutarlo, ma non accadde nulla, se non che il suo corpo attraversò quello del giovane come fosse una nuvola di fumo. Eppure, malgrado quelle sensazioni aliene, la Caposcuola si ritrovò a sorridere tra sé e sé. C’era qualcosa nel proprietario di quel ricordo che la metteva di buonumore, forse i suoi capelli scuri che contrastavano con gli occhi a mandorla castani così caldi da sembrare quasi scarlatti, forse il suo look, forse il sorriso che riusciva a stento a trattenere, ed ebbe l’impressione che il ragazzo fosse il tipo di persona in grado di farsi voler bene da tutti, carico delle stesse vibrazioni che le trasmetteva suo fratello maggiore.
    All’improvviso l’ascensore ebbe un violento scossone e si fermò di botto, le luci sfarfallanti per qualche istante prima che la cabina piombasse nell’oscurità. La Cercatrice rimase in attesa per alcuni secondi, aspettandosi che si attivassero le luci di emergenza, invece l’ascensore rimase buio e soffocante mentre l’allarme cominciava a risuonare nel palazzo. In quelle condizioni non riusciva più a vedere il ragazzo ma lo sentiva respirare affannosamente, raggomitolato in un angolo, il tintinnio delle chiavi quasi asfissiante. Non ebbe difficoltà a intuire che da quel momento in poi non avrebbe più preso un ascensore in vita sua e, mentre sospirava, i minuti passavano lentissimi e pesanti, le tenebre sferzate dal solo fischio del sistema di sicurezza.
    La cabina venne sbloccata dopo circa venti minuti, e subito una folla di persone al piano terra accerchiò il giovane, domandandogli se stesse bene e rassicurandolo che fosse ormai tutto ok.
    Peccato che non lo fosse affatto. Il ragazzo si limitò ad annuire, accettando con un gesto automatico il pacco che uno dei condomini gli consegnò tra le mani riferendogli che il corriere se n’era andato via. Sam si era chiesta perché Eijirō - così l’avevano chiamato - non avesse estratto subito la bacchetta o usato il cellulare per farsi luce, ma se era sceso solo per ritirare una consegna non avrebbe avuto senso portarseli dietro. Poco ma sicuro, in futuro non sarebbe più uscito di casa senza entrambi (un'ulteriore disagio dovuto all'incidente), ed in quella il desiderio di aiutarlo esplose nel petto della Tassorosso come un piccolo sole: non si trattava più di svolgere un semplice esercizio, ma di fargli superare quell’episodio. Anzi, di farglielo dimenticare, di permettergli di godersi la gioia per l’arrivo di quel pacco per cui era stato tanto su di giri.
    Pochi attimi dopo il ricordo sfumò e Sam si ritrovò a vorticare all’indietro, risucchiata da una strana forza repulsiva che la stava scacciando da quella realtà a cui non apparteneva. Ansante, con un rivolo di sudore sulla tempia e un cipiglio rammaricato e determinato sul volto, estrasse rapida il suo noce e ne immerse lievemente la punta nel pensatoio, per districare il ricordo dalla matassa che vi vorticava attorno. A quel punto non le restava che pronunciare la formula, la mente del tutto focalizzata sul suo compito: sapeva con esattezza dove recidere e dove ricucire, ripercorrendo con il pensiero la vicissitudine fino ad un istante prima del blackout e bloccando lo scorrimento nel momento in cui la vicina gli aveva consegnato il pacco. Avrebbe voluto aggiungere qualche altro dettaglio affinché le due estremità recise combaciassero meglio, dargli una spiegazione fittizia del perché metà del palazzo si fosse radunata al pianterreno, ma confidava che la sua mente avrebbe fatto il resto, forse attribuendo il problema a qualcun altro.
    Solo quando si sentì del tutto sicura pronunciò «Oblivion», sperando di aver agito in modo corretto; d’altronde alla lavagna era specificato che quella formula andava lanciata tenendo il catalizzatore alla tempia del bersaglio, ma Eijirō non era lì, e non poteva agire dall’interno del ricordo. In ogni caso, avrebbe ritentato finché non avrebbe avuto successo.

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    Samantha Jensen O’Connor
    18 Y.O.| VII year | HUFFLEPUFF HEADGIRL, CAPTAIN & SEEKER | voice | ϟ
    E

    cco, se proprio avesse dovuto menzionare una caratteristica che accomunava Caroline e la Santos Diaz, questa sarebbe stata la loro dinamicità, entrambe poco avvezze a rimanere immobili durante le spiegazioni. La supplente infatti batté vigorosamente le mani quando ebbero terminato la prova, annunciando che per ora non avrebbe aggiunto altro sulla manipolazione dei ricordi, e Sam tirò un silenzioso sospiro di sollievo. Detestava interferire con la mente delle persone, e sapeva già che costringersi ad esercitarsi con quegli incantesimi in vista del G.U.F.O. sarebbe stata dura.
    “Solo qualche altro mese” si disse “e non dovrai più lanciare fatture simili su nessuno”
    Il nuovo argomento di quella mattinata, particolarmente impegnativa, riguardava l’accesso al mondo onirico, un tema che in altre circostanze avrebbe affascinato la Tassorosso, ma che quel giorno le fece presagire qualcosa di spiacevole. Nel tentativo di tranquillizzarsi i suoi occhi scivolarono sulla figura di Blaise, quieto e sorridente di fronte alla classe, cosa che la portò a domandarsi se fosse così rilassato perché soddisfatto dai loro risultati nell'esercitazione precedente, o se fosse solo una mera abitudine.
    Il grattare dei gessetti sulla lavagna la distrasse dalle sue elucubrazioni, trascrivendo le nozioni principali delle tre formule sul quaderno con i dettagli e i consigli su come usarle correttamente. Di certo erano tutte informazioni già presenti sul libro, ma prendere appunti direttamente la aiutava a fissare i concetti. Segnò anche con dovizia la corretta pronuncia di ciascun incantesimo mentre la Carter prendeva a girare per i banchi, e quando udì quanto potesse durare l’Infinitus Somnium per poco non sobbalzò, mordendosi la lingua per lo sconcerto. Un anno?! Seriamente?! Poteva solo immaginare il terrore di chi aveva brevettato quella fattura, in trepidante attesa che le cavie su cui aveva sperimentato si destassero. Tosca, il Distillato della Morte Vivente garantiva al massimo diciotto ore di sonno profondo, perché diavolo c’era tutta quella differenza? Caroline stessa aveva affermato che spesso le pozioni erano più potenti degli incantesimi, ma evidentemente quella specifica magia faceva eccezione!
    Di domande, quando fu loro chiesto se ve ne fossero, ne aveva un’infinità, ma scelse di porgergliene solo una. Al resto avrebbe pensato in un secondo momento.
    «Sì, se posso» interloquì, alzando la mano in attesa di poter proseguire. «Ha detto che l’Infinitus Somnium può durare fino a un anno, ma nel mentre cosa ne è delle funzioni vitali della vittima? L’incantesimo fornisce anche i nutrienti di cui il corpo ha bisogno e preserva i muscoli dall’atrofia, o sono problemi che vanno affrontati separatamente? Si tratta di un sonno senza sogni o la mente rimane comunque attiva?»
    Chiariti che furono i suoi dubbi, tuttavia, Frederiksen venne nuovamente chiamato in causa, e l’orribile sospetto che le era sbocciato nel petto poco prima tornò ad artigliarle i polmoni.
    “No, per favore, non di nuovo”
    Prima ancora che potesse rendersene conto, la supplente aveva già addormentato l’Auror, ora a riposo su una sedia, e stava dando loro le istruzioni per quell’ennesima prova. Le iridi di Sam, contrite e quasi disperate, tornarono ancora una volta a fissarsi sul volto dell’uomo, maledicendolo tra sé e sé per essersi offerto di fare da cavia per quella lezione. Blaise era una delle persone che la O’Connor più rispettava in assoluto, e frugargli nella mente era l’ultimo dei suoi desideri. “Scoprire qualche informazione personale” su di lui? "Cercare di divertivi"? Diamine, no! Non ne aveva la minima intenzione! Non che sarebbe stato diverso con chiunque altro! Avrebbe detestato subire un trattamento simile, figuriamoci farlo lei a qualcun altro!
    “Tosca, non è per questo che mi sono iscritta a questo corso!”
    Avrebbe voluto gridare per la frustrazione. Altro che violare la privacy del docente! Caroline aveva detto che se l’intrusore si fosse comportato in modo strano, la vittima se ne sarebbe accorta e l’avrebbe scacciato, giusto? Perfetto. Avrebbe fatto esattamente così.
    Nervosa, rimase in fremente attesa che Edward Leah svolgessero la propria prova, dopodiché, prima che Matthew potesse costringerla ad aspettare ancora, si fece avanti e si posizionò rigidamente di fronte all’insegnante dormiente, il viso distorto in un’espressione colma di senso di colpa. Poi, cercando di chiamare a raccolta tutta la propria concentrazione e di mettere da parte le proprie remore, impugnò il catalizzatore e lo posizionò a circa dieci centimetri di distanza dall’orecchio del docente, imitando infine il gesto che aveva già visto compiere ai compagni e avvicinandosi all’organo di senso con lenti movimenti a spirale. In ultimo scandì con cura «Insinuo Somnium», sperando di non aver innescato niente di troppo personale nel subconscio dell’uomo mentre la punta della bacchetta si accendeva di luce rosata.
    Aveva funziona-
    Prima ancora che potesse concludere il pensiero, venne risucchiata verso il docente con la stessa forza aliena che l’aveva accolta nel pensatoio, una sensazione che niente aveva a che vedere con la compressione della Smaterializzazione: entrare nella psiche di qualcuno era come precipitare in caduta libera, e mentre nel vortice del trasporto c’erano suoni e colori, in quell’intromissione non vi erano altro che buio e silenzio.
    Eppure, appena il mondo onirico cominciò a prendere forma, tutto ciò che percepì attorno a lei furono caos e urla. Una fiumana di gente dai volti indefiniti le correva attorno disperata, allontanandosi da qualcosa mentre le palazzine e le carreggiate brulicavano di-
    “Mioddio…”
    Inferius. C’erano Inferi ovunque che si arrampicavano sui condomini e aggredivano i passanti, artigliandosi alle colonne e alle architetture storiche del centro di Roma. Realizzare di trovarsi proprio in quella città le fece sprofondare il cuore nello stomaco, memore delle espressioni dell’insegnante quando avevano visitato la capitale italiana l’anno precedente, e d’un tratto avvertì una furia imprevedibile incendiarle il petto, una rabbia rivolta al programma di quel corso e a ciò che stava costringendo Frederiksen a vivere. Fu quasi come essere ritornata nello scenario apocalittico ideato dai muffin di Huxtable secoli prima, alle prese con la distruzione di Hogwarts e la morte dei suoi compagni e amici mentre il Preside le impediva di uscire ad aiutare chi era rimasto bloccato fuori dal castello. Agì prima ancora di rendersene conto, mettendosi a correre forsennatamente e schiantando quanti più Inferi possibile mentre si avvicinava al vortice di quell’invasione, la stessa fontana attorno alla quale Blaise aveva fatto esercitare lei, Audrey ed Aimee con le barriere. Sembrava che quei maledetti corpi senza vita fuoriuscissero da lì, ed era lì che trovò il professore, il viso una maschera di odio e dolore che per poco non le fece girare la testa. Non aveva idea di cosa stesse pensando - paradossale, visto che si trovava nel suo cervello! -, e per qualche istante rimase ad osservarlo in azione, totalmente concentrato sul suo ruolo di Auror malgrado i sentimenti che dovevano dilaniarlo.
    Non poteva rimanere a guardare oltre, non ne aveva la forza, non poteva fargli questo.
    «Professore!» gridò, liberandosi degli Inferi circostanti con un Obortus ed infilzandoli su acuminati spuntoni di roccia. Blaise però non dava cenno di averla vista e urlò qualcosa a qualcuno, forse dei suoi commilitoni. In effetti non ci aveva fatto caso subito, vestiti com’erano di nero e terribilmente simili agli Inferi, ma la piazza era piena di maghi alle prese con le creature che, inarrestabili, continuavano a emergere dalla fontana, dai pozzi, dai tombini e dalle stesse case. Alcuni stavano isolando l’area, altri combattevano. Sam distinse una ragazza dai corti capelli biancastri che doveva avere all’incirca l’età della Carter liberarsi di una dozzina di Inferi in un solo colpo, lame di vento che li facevano a pezzi mentre abbaiava a qualcun altro di darsi una mossa, ma subito le sue pupille tornarono su Frederiksen.
    «Professore!» lo chiamò più forte, scagliando un Incendio sull’ennesimo Inferius e continuando ad avanzare col cuore che le martellava nelle orecchie.
    «Miss O’Connor!». La voce dell’Auror era distorta dallo spavento e dall’angoscia. «Cosa ci fa qui? Si allontani immediatamente, questo non è posto per- Petrificus Totalus
    «Professore, mi- Impedimenta-! Mi ascolti!»
    insistette Sam, ansante. «Tutto ciò non è reale, sono dentro un suo incubo!». Un lampo di consapevolezza attraversò lo sguardo dell’uomo, eppure non si svegliò. Non poteva, non con un sonno indotto dalla magia. Doveva essere destato dall’esterno, ma almeno adesso il sogno era diventato lucido.
    E lei era ancora lì. Perché era ancora lì?! Non avrebbe dovuto venire scacciata nell’istante in cui Frederiksen si fosse accorto che lei era un’intrusa?
    Incarceramus! Pensa, pensa!”
    Cosa gli aveva detto? Che era in un suo incubo? Forse per lui non era così strano sognare cose del genere, forse era sinceramente preoccupato per i suoi studenti, forse per lui “incubo” non significava sogno, ma solo una delle realtà a cui aveva dovuto assistere?
    «In questo momento Lei si trova su una sedia nell’aula della Santos Diaz, stiamo provando gli incantesimi del sonno su di Lei- Everte Statim
    Per qualche altro istante la Tassorosso rimase in attesa, trepidante, respingendo gli Inferi accanto al docente, e poi, all’improvviso, uno strappo all’addome la rispedì indietro con la violenza di un ceffone, rilanciandola in classe così forte che per poco non barcollò contro la cattedra.
    «Professore…!» urlò di nuovo, d’istinto, ma la sua voce si limitò ad echeggiare nella stanza immersa nel silenzio. I secondi successivi furono esitanti, colmi di imbarazzo, mentre tornava al proprio posto spostando impaziente le iridi da Matthew a Blaise. Non aveva fatto in tempo a dirglielo, a fargli sapere che non appena fosse uscita l’avrebbe liberato da quel tormento. Poteva solo sperare che Corbin gli facesse vivere un sogno molto migliore di quello a cui l’aveva condannato lei.

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    Samantha Jensen O’Connor
    18 Y.O.| VII year | HUFFLEPUFF HEADGIRL, CAPTAIN & SEEKER | voice | ϟ
    S

    am ascoltò con attenzione la risposta al suo quesito, appuntandosi rapida i chiarimenti ai suoi dubbi accanto ai punti di domanda che aveva lasciato in attesa di udire la replica della docente. Si trattava senz’altro di un incantesimo molto potente, ma decisamente poco pratico. Forse veniva usato dai Medimagi per tenere i pazienti in una sorta di coma farmacologico? O magari dagli Auror per sedare i prigionieri nel tentativo di stordirli e farli confessare? Non riusciva davvero a immaginarsi uno scenario in cui potesse essere utile costringere una persona a dormire fino a un anno, specie con l’impiccio di doverla alimentare per evitarne il decadimento del corpo, e durante un duello, come aveva detto la Carter stessa, sarebbe bastato un Somnium.
    Le sue elucubrazioni vennero interrotte dall’esortazione ad esercitarsi con l’Insinuo Somnium, al che la Tassorosso decise che ci avrebbe riflettuto ancora più tardi.

    [...]

    Ancora ansante e turbata, Sam si strinse le braccia attorno al corpo e tenne la testa bassa, le pupille che continuavano a dardeggiare verso il profilo addormentato di Blaise mentre anche Matthew svolgeva la sua prova. Sperava che almeno con lui la psiche di Fredericksen non avrebbe fatto scherzi - non che potesse farci niente. Approfittò così di quei minuti per regolarizzare il respiro e, una volta finito, temporeggiare di fronte all’offerta della supplente prima di rifiutare tè, cioccolata e biscotti. Aveva lo stomaco annodato, e non sarebbe riuscita a godersi né le bevande né i dolci in quel momento.
    Trascorse i dieci minuti di pausa rilassandosi, lasciando che la mente vagasse su lidi più leggeri mentre Caroline svegliava il collega. Per fortuna non aveva altre lezioni quel giorno, e dopo pranzo avrebbe potuto dedicarsi un po’ allo studio prima di dirigersi al campo di Quidditch. Allenarsi le avrebbe fatto bene, e vedere quanto i propri compagni di squadra si impegnassero le riempiva sempre il cuore di orgoglio.
    Poco dopo l’Auror si alzò stancamente e, congedatosi dagli alunni, lasciò l’aula con una tazza di cioccolata calda fra le mani. A quella vista Sam ebbe uno spasmo involontario, reprimendo l’impulso di fermarlo, chiedergli come stesse e domandargli scusa. Forse il sogno si era tramutato in un incubo per la sua incompetenza, perché ancora non era pratica con quella fattura, e voleva assicurargli che non sarebbe più ricapitato. Non che a Blaise potesse davvero interessare, d’altronde non sarebbe stato lui la sua futura vittima, eppure il rammarico non accennava a lasciarle il petto e non sapeva come altro liberarsi di quella sensazione spiacevole.
    Forse fu un bene che la lezione non fosse ancora terminata, almeno i pensieri che erano tornati ad affollarle la mente dopo essere riuscita per qualche attimo a disfarsene le avrebbero dato un po’ di tregua. E in effetti, l’ultimo incantesimo che la Carter passò a spiegare faceva proprio al caso suo, una formula che consentiva di manipolare il sogno del bersaglio a proprio piacimento. Se solo l’avesse imparato prima avrebbe potuto modificare l’incubo degli Inferi di poco prima, dannazione!
    Frustrata, si morse la parte interna del labbro mentre la docente evidenziava le ulteriori potenzialità del Nexum, facendo presente che avrebbe potuto essere usato anche a proprio stesso vantaggio per vivere situazioni altrimenti irrealizzabili. Quel dettaglio alla O’Connor non piaceva, un certo turbamento all’idea che se ne sarebbe potuto abusare per evadere dalla realtà e rifugiarsi nei sogni, ma dovette ammettere con se stessa che vivere qualcosa di ristoratore e idilliaco di tanto in tanto non poteva fare male.
    Poi, dopo quelle che le erano sembrate ben più di due ore, il seminario terminò e Caroline assegnò loro il compito di esercitarsi con il Nexum su un compagno di Casa.
    “Oh, no, non di nuovo”
    Certo, stavolta avrebbe potuto fare in modo che il sogno fosse positivo e non traumatico, ma si sentiva comunque invadente a mettere piede nel mondo onirico di un’altra persona. Non voleva violare la privacy di nessuno, nemmeno per fare del bene - se così potesse definire ciò che avrebbe dovuto compiere. Di una cosa era certa, comunque: non l’avrebbe scagliato sui suoi compagni di Casa. Voleva che il suo bersaglio fosse consapevole dei rischi e che si fidasse di lei, o si sarebbe sentita troppo in colpa e avrebbe di certo combinato un casino come con Blaise.
    «Arrivederci, professoressa» salutò dopo aver riposto tutto il materiale nella borsa ed essersela posta stancamente a tracolla. «Ciao, Lord Riccelton».
    Se considerava il suo stato d’animo quando era entrata in classe e la sua attuale condizione, quasi le veniva da ridere: non potevano essere più agli antipodi di così.

    [...]

    Fece una rapida tappa in Sala Comune per lasciare la borsa e darsi una rinfrescata, dopodiché si diresse in Sala Grande insieme ai compagni. A quell’ora c’era sempre un gran fermento, e udire quel chiacchiericcio così vitale la rincuorò mentre prendeva posto accanto ai membri dei Quafflepuff. Di tanto in tanto, durante il pranzo, le sue iridi correvano verso la tavolata dei professori alla ricerca di Blaise, ma dell’uomo nemmeno l’ombra, probabilmente rifugiatosi nel suo studio per riposare un po’.
    Un sospiro.
    La sua attenzione, in ogni caso, rimase per lo più concentrata sui Serpeverde, lo sguardo che scandagliava i vari volti alla ricerca di quello familiare della Hastings. Audrey aveva già il G.U.F.O. in Manipolazione della Mente, sapeva a cosa sarebbe andata incontro, e soprattutto si conoscevano da sette anni. Sette lunghi anni durante i quali avevano litigato e si erano sfidate quasi fino alla nausea, e che le avevano portate a stringere la più bizzarra delle amicizie. Se la Caposcuola si era tanto sciolta nei suoi confronti malgrado Pozioni Sottosopra e Incarceramus quasi letali, per Sam era il segno che non potesse esserci bersaglio migliore per fare pratica - sempre che alla Hastings fosse andato bene.
    Non appena la Serpeverde finì di mangiare, la O’Connor si affrettò ad abbandonare posate e piatti vuoti e sfrecciò verso il portone, placcandola prima che potesse perderla di vista.
    «Ehi, Audrey» le sorrise tra l’ironico e l’imbarazzato. «Hai un minuto per caso?»

    [...]

    La Tassorosso le aveva spiegato brevemente quale fosse il suo compito e le aveva proposto, per non mettere di mezzo altri concasati, di svolgerlo in una delle aule vuote usate per le esercitazioni. Avrebbero sigillato l’ingresso per non essere disturbate e, una volta lì, la Cercatrice avrebbe evocato un letto e l’avrebbe addormentata, sfruttando l’Insinuo Somnium per accelerare l’ingresso nel mondo onirico e non farle perdere troppo tempo. A quel punto, una volta che la Hastings fosse stata profondamente addormentata, avrebbe accostato la bacchetta a circa dieci centimetri dal suo orecchio e, eseguendo un movimento a spirale in senso orario, si sarebbe avvicinata ulteriormente pronunciando «Nexum».
    Il caratteristico filamento argenteo emerse dalla punta del catalizzatore ed entrò nel padiglione della Serpeverde, instaurando un subitaneo collegamento mentale con la psiche della ragazza e permettendole di assistere a ciò che stava vivendo. Come illustrato dalla Carter, Audrey non si accorse della sua presenza mentre la Tassorosso osservava la scena di fronte a sé che, dopo qualche momento di offuscamento, divenne via via più definita e concreta.
    La prima sensazione che provò fu una profonda irritazione, e per qualche istante quasi scoppiò a ridere per l’ironia - cosa poteva aspettarsi dalla sua miglior nemica? Tuttavia, in quel frangente, la trovò piuttosto giustificata. La Hastings si trovava su una spiaggia chiara e deserta, il mare turchese brillante sotto i raggi del sole, eppure non era sul panorama che era concentrata: la sua attenzione era interamente rivolta ad una persona agghindata di bianco, con una maschera protettiva sul viso e un fioretto stretto in pugno, specchio della mise che anche Audrey indossava.
    “Abiti da scherma?”
    In effetti ricordava che, molti anni prima, avevano svolto delle esercitazioni di scherma per sciogliersi nei duelli, ma non pensava che le fossero rimaste così impresse. Lasciò perdere però le sue riflessioni e si impegnò a capire meglio la situazione, mentre l’avversario della Serpeverde continuava ad infliggerle un affondo dopo l’altro, costringendola a indietreggiare e a mettersi sulla difensiva.
    “Ah, ecco perché il fastidio”
    Audrey era la persona più competitiva che avesse mai conosciuto, e perdere, anche se solo in sogno, doveva mettere a dura propria la sua tolleranza.
    Avevano discusso insieme di vari scenari prima che si addormentasse affinché Sam potesse elaborare una situazione il più gradevole possibile, e sebbene non si aspettasse la scherma, sapeva esattamente cosa fare. Sfruttando il legame del Nexum fece dunque in modo di ribaltare le sorti dello scontro, manipolando le azioni della Hastings come fosse un burattinaio e inducendola ad abbassarsi e schivare fluidamente le sferzate di fioretto come in una sorta di danza. L’avversario, preso in contropiede, avrebbe rialzato la guardia, ma non abbastanza in fretta da bloccare l’attacco di Audrey, rapido e scattante come una vipera. La mancina della ragazza si mosse svelta, e con un impeccabile movimento di polso disarmò il contendente, per poi dare un’ultima stoccata sul suo petto per segnalare il primo sangue, la spada dell’altro che volava da qualche parte nella sabbia.
    Poi la Hastings fece un altro passo, un’altra scudisciata, un’altra punzecchiatura, finché lo sfidante non si trovò a dover indietreggiare così in fretta da inciampare sul terreno sabbioso e irregolare e finire sdraiato con la schiena a terra, le mani subito rialzate per proteggersi mentre la Serpeverde posava leggermente un piede sul torso dell’altro e si sporgeva in avanti per incombere su di lui. In un gesto teatrale, si sfilò l’elmetto protettivo e si chinò ulteriormente sullo sconfitto, un sorrisetto colmo di compiacimento in viso, il cuore che batteva forte per l’adrenalina e la soddisfazione, i lunghi capelli lucenti sotto il sole.
    «Ho vinto»

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    Edited by Kasra; - 3/2/2022, 23:35
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